A quasi cinque anni da quello che successe nel carcere di Santa Maria Capua Vetere mentre i riflettori mediatici si sono abbondantemente spenti sulla vicenda. Nelle aule di tribunale si sta ancora combattendo con costanza una battaglia legale non solo perché la verità storica venga riconosciuta ma anche perché non avvengano più mattanze come quella operata tra le quattro mura di quella assolata prigione alle porte di Napoli.
Ci sembra importante proprio all’indomani dell’approvazione del Decreto, ora Legge Sicurezza tornare su questa vicenda, ricostruirla e affrontarne i nodi giuridici che ne fanno oggi una storia emblematica su cui contribuire collettivamente ad andare controcorrente.
Abbiamo chiesto all’Avvocato Luigi Romano del Foro di Benevento, attivista di Antigone, che fin dall’inizio ha seguito tutti i fatti di aiutarci a capire. Ringraziamo Luigi che con precisione ed in maniera approfondita ci ha aiutato con l’intervista a far il punto della situazione in modo che sia possibile condividere per associazioni, realtà di base, avvocati e giuristi cosa c’è in gioco nelle varie inchieste che riguardano l’accaduto.
L’intervista affronta la genesi della vicenda e l’iter giudiziario: l’indagine della Procura che ha portato al processo in corso oggi in Corte d’Assise 105 imputati, tra personale di polizia interno al carcere, medici che hanno operato in istituto e alti dirigenti dell’Amministrazione penitenziaria. Una seconda inchiesta si è conclusa per 32 imputati, agenti esterni all’istituto che hanno eseguito le operazioni violente del 6 aprile 2020. I reati contestati sono diversi ed articolati e vanno dalla tortura al depistaggio, all’omicidio colposo al falso.
L’intera vicenda rappresenta una radiografia cruda delle forme del potere dell’istituzione carceraria di oggi.
Approfondire la complessità dell’iter giudiziario che ha segnato l’intera vicenda può portare un contributo significativo nella battaglia per affrontare il diritto come campo di contesa per i diritti umani e la convivenza civile, proprio in un momento in cui le tensioni securitarie e retrive cercano con ferocia di avanzare.
L’Avv. Luigi Romano è autore del libro “La settimana santa. Potere e violenza nelle carceri italiane”, uscito per Edizioni Cavalcavia nell’ottobre 2021, in cui si ricostruisce a fondo la mattanza del 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere.
INTERVISTA CON L’AVV. LUIGI ROMANO – Foro di Benevento – Antigone
- Partiamo dall’inizio. Eravamo nell’anno del Covid. Brevemente contestualizziamo cosa stava avvenendo nelle carceri.
Nel 2020 si è verificato nel nostro sistema penitenziario un vero e proprio collasso di tutto il mondo dell’esecuzione penale.
Tutto è iniziato nel marzo con due proteste importanti nel carcere di Salerno e di Poggioreale, ambedue in Campania. Proteste vibranti di detenuti comuni. Sottolineo questo aspetto perché per la ricostruzione dei fatti c’è stata una inchiesta successiva del Ministero e si paventava all’inizio una narrazione tossica secondo cui i detenuti dell’Alta sicurezza avessero in qualche modo diretto le proteste dei comuni. In realtà non è stato così, come sapevamo bene noi che fin dall’inizio abbiamo seguito la vicenda.
A Salerno i detenuti avevano preso in mano il reparto e anche a Poggioreale c’è stato uno scontro quasi corpo a corpo. A cascata sono seguite proteste in altri penitenziari. Sono state circa 70 le prigioni in tutta Italia che sono insorte durante le prime settimane dell’emergenza.
Cosa era successo? Ci fu un espediente gestito in male modo dall’Amministrazione Penitenziaria che aveva determinato la mutazione del quotidiano nei reparti e cioè l’improvvisa interruzione dei colloqui visivi con i familiari. Questa decisione è apparsa priva di ragionevolezza rispetto alla situazione che si viveva all’interno degli istituti. Non c’erano dispositivi di sicurezza, non c’era la possibilità di tracciare il virus all’interno delle carceri con un monitoraggio capillare.
Di fatto, è stata una decisione che ha determinato l’irriproducibilità della vita quotidiana carceraria. L’istituzione collassò all’unisono.
- E’ importante capire il momento in cui tutto inizia. Se torniamo con la mente a quei giorni, tutti vivevamo una situazione di totale incertezza, isolati l’uno dall’altro. Possiamo solo immaginare come si stava nelle carceri, già sovraffollate e ben poco curate dal punto di vista dei servizi. Stiamo parlando di una istituzione totale che proprio per la sua natura avrebbe avuto bisogno di attenzioni maggiori per chi vi si trovava ma invece non si è stati in grado, non c’è stata la volontà politica di affrontare complessivamente l’emergenza per la popolazione detenuta. Cosa stava succedendo?
Possiamo dire che in generale l’impatto dell’emergenza del virus ha così fortemente sollecitato l’istituzione carcere, già fortemente compromessa per le enormi contraddizioni che affollano il mondo penitenziario da anni, da determinarne l’implosione del tessuto istituzionale. L’istituzione penitenziaria è estremamente rigida, incapace di prevedere qualsiasi tipo di modifica strutturale e soprattutto completamente presa da miliardi di antinomie, inagibile proprio dal punto di vista concreto. In quel periodo, giocarono un ruolo decisivo la paura del contagio, il sovraffollamento, e le carenze organizzative dell’Amministrazione.
Cosa si è scatenato a marzo 2020? Nel carcere Sant’Anna di Modena 9 persone detenute sono decedute nel corso delle operazioni di polizia durante le proteste, ma anche a Poggioreale, Salerno, c’è stato proprio il contendersi dello spazio con la violenza fisica dei reparti di polizia penitenziaria, in una situazioni dove c’è stata una rottura interna dell’ordine.
- In questo contesto generale arriviamo a quello che è successo in particolare ad aprile 2020 a Santa Maria Capua Vetere. Cosa è avvenuto?
Prima di passare alla cronaca bisogna spendere due parole su questo carcere. Santa Maria Capua a Vetere è un carcere molto particolare. Nasce in una periferia urbana, a ridosso dell’interporto di Teverola, una zona che era a vocazione agricola prima ma successivamente viene completamente disarticolata rispetto alla destinazione iniziale. Nella stessa Terra di Lavoro oggi c’è il più grande interporto logistico dell’Europa meridionale. Qui nasce questo casermone contenitivo in mezzo “al nulla”, per sopperire al carico dei detenuti negli anni ‘90 dei processi per camorra, per gestire la pressione in ingresso di Poggioreale, un carcere da sempre ipertrofico dal punto di vista della crescita numerica interna.
Da marzo 2020, quando c’era stata l’interruzione effettiva dei colloqui, le proteste erano continuate sia per la paura del virus che per la questione di come riuscire a gestire i colloqui interni.
Nell’aprile 2020 i detenuti entrano in agitazione perché dal telegiornale conoscono le condizioni dell’Alta sicurezza, dove c’è un detenuto che ha contratto il virus: il covid è entrato nel carcere.
Ad entrare in uno stato di agitazione è sempre la detenzione comune, che raccoglie il sottoproletariato urbano delle metropoli, chi non ha categoria per leggere la complessità del penitenziario e paracadute per sopperire alle necessità minime. Una composizione marginalizzata prima e reclusa dopo. Perché dico questo? Perché i profili detentivi dell’Alta sicurezza hanno uno spessore criminale diverso, riescono in qualche modo ancora adesso anche se profondamente trasformati ad avere un’idea di quello che accade rispetto al percorso di vita e alle scelte intraprese. La detenzione comune non è così. In molti casi sono detenuti con doppia diagnosi, che hanno percorsi di tossicodipendenza lunghi. In gran parte soggetti ai margini della società, per certi versi già espulsi. Sono loro ad insorgere in maniera quasi irrazionale, si potrebbe dire.
A Santa Maria Capua a Vetere si inizia con una protesta assolutamente pacifica, una battitura. I detenuti prendono il reparto e chiedono di parlare con il Magistrato di sorveglianza. Per ottenere il colloquio si rifiutano di entrare in cella dopo l’orario di chiusura, praticando così una sorta di contesa dello spazio. Dopo questa iniziativa, raggiunta la mediazione, la protesta rientra. Il giorno successivo viene convocato il Magistrato di sorveglianza che parla con i detenuti, l’intento è di rasserenare un attimo gli animi. I detenuti sono molto spaventati, non ci sono le mascherine, non ci sono i tracciamenti, non c’è la possibilità di fare i test per capire dove il virus cammina e in quale zona del reparto corre. Nella sostanza la situazione di tensione rientra.
Ma cosa avviene di particolare a Santa Maria Capua a Vetere di diverso dalla violenza che si scatena per esempio nel carcere di Modena, dove ci sono stati molti decessi?
Una risposta politica da parte del personale penitenziario. Si organizza una rappresaglia a freddo e la si chiama ‘perquisizione straordinaria’.
Una rappresaglia che, dal punto di vista burocratico, acquista la terminologia di straordinarietà. Ricordiamoci che operazione straordinaria era stata anche quella orchestrata nella scuola Diaz nelle giornate delle proteste a Genova contro il G8 del 2001 e che anche in quel caso fu usata la dinamica della perquisizione per trovare le famose armi dei black bloc per giustificare il successivo massacro.
A Santa Maria Capua a Vetere nell’aprile 2020 il personale di polizia doveva organizzare una perquisizione per trovare le armi dei detenuti che erano insorti la sera prima. Questo il pretesto istituzionale ma la perquisizione straordinaria aveva altri obiettivi.
L’operazione si realizza al reparto Nilo, in tutte e quattro le sezioni. Nel carcere sammaritano i reparti hanno i nomi di vari fiumi.
All’operazione partecipano 300 poliziotti carcerari in tenuta antisommossa. Quest’ultimo aspetto è oggetto di accertamento in dibattimento: chi dà l’ordine di entrare armati? Dal dibattimento finora sembra che la decisione di schierare con tenuta armata i poliziotti sia stata condivisa da tutta la catena di comando del penitenziario, dal personale “civile” e da quello in divisa.
Si aspetta la conclusione del colloquio del Magistrato di sorveglianza e poi scatta l’operazione già ampiamente preparata.
Tutta l’operazione è condotta dalla polizia penitenziaria. Vi partecipano reparti misti sia personale interno che da altre carceri oltre al personale del GIR, il Gruppo di Intervento Rapido, che il Provveditore dell’amministrazione penitenziaria aveva istituito in Campania per sopperire a tutta una serie di disfunzioni. Per capirci durante il Covid il personale per paura di infettarsi aveva cercato di sottrarsi al lavoro e di fronte alla necessità di garantire quantomeno la copertura del personale in servizio, il Provveditore inventa il GIR cioè un gruppo misto tra tutti gli agenti di polizia penitenziaria in Campania. Questo gruppo insieme a altro personale esterno e al Nucleo traduzioni viene chiamato alla bisogna. L’interazione del personale e i momenti della cd. ‘chiamata alle armi’ si intende molto bene nelle chat oggetto di perizia.
Comunque, il gruppone di poliziotti entra a Santa Maria Capua a Vetere armato e ha in sostanza l’ordine ufficioso, come si vede chiaramente nei video, di compiere una rappresaglia a freddo colpendo violentemente i detenuti del Nilo. Tutti i detenuti vengono fatti passare in corridoi umani composte dagli agenti in tenuta antisommossa dove vengono picchiati. Tutto si vede molto bene nelle riprese dei circuiti di videosorveglianza interni.
I poliziotti erano dovunque, in tutti i piani. I detenuti dopo essere stati colpiti ripetutamente, vengono spostati alcuni nella sala della socialità e altri vengono portati nelle zone dei passeggi. L’operazione dura circa 4 ore, all’esito vengono riportati nelle celle, dove scopriranno, come raccontano nelle loro testimonianze, che le celle erano state distrutte: pacchi di pasta riversati per terra, vestiti sparpagliati ovunque, olio versato sul pavimento… Non c’è modo di sfuggire alla violenza.
Inoltre, il personale che ha operato il 6 aveva anche l’obiettivo di individuare 15 detenuti considerati gli agitatori delle proteste del giorno precedente. I testimoni riferiscono che alcuni agenti avevano in mano delle schede segnaletiche, probabilmente erano agenti esterni che non conoscevano personalmente i detenuti. I 15 detenuti vengono picchiati duramente. prelevati e messi nella sezione di isolamento al Danubio, piano terra sinistro.
Sappiamo dai casi che seguiamo che dopo le percosse segue quasi immediatamente il trasferimento ma il ‘piano straordinario’ previsto per il carcere Sammaritano si inceppa: nessuno si può muovere dal carcere a causa del Covid e quindi i 15 restato nel reparto Danubio in attesa di un possibile trasferimento.
Questa rappresenta un ulteriore aspetto della vicenda che coinvolge in particolar la catena di comando civile, impegnata a ‘giustificare’ dal punto di vista normativo il trasferimento e la permanenza dei detenuti nei reparti di isolamento. Tali condotte secondo la Procura hanno dato vita ad una serie di ‘falsi’.
Ad ogni modo, i 15 se ne dovevano andare, perché secondo il personale in divisa sono degli agitatori, rompiscatole del reparto. Bisogna eliminare il fastidio.
Finora sembra emergere con chiarezza l’obiettivo della operazione, il vero senso della rappresaglia: il personale è stanco. C’è una richiesta del personale, bisogna dare un segnale forte a tutto il reparto. Questo è l’obiettivo politico.
Come in una guerra bisognava rinsaldare le file ripristinando i rapporti di forza: la perquisizione straordinaria ha una finalità politica perché deve far capire chi comanda.
- Se andiamo con la memoria a quelle settimane il messaggio che bisognava riportare ordine nelle carceri era veicolato con forza anche all’esterno.
Certo. Basti pensare al Ministro di allora, Buonafede che per prima cosa pubblicamente offre solidarietà al personale di polizia penitenziaria. Traspare la preoccupazione sulla gestione di questo spazio di guerra da parte dei “soldati al fronte”.
- Torniamo a quanto è accaduto. Abbiamo visto tutti le immagini del massacro in cui si vedono i poliziotti penitenziari accanirsi sui detenuti. Quelle immagini parlano da sole e hanno dato un contribuito fondamentale a costringere l’avvio delle indagini. Come è nata l’intera indagine?
Come al solito ci sono svariate interpretazioni del perché ci troviamo quelle immagini. È un caso fortuito: qualcuno ha detto ai colleghi di disattivare le telecamere, ma anziché disattivarle vengono spenti solo i monitor e quindi le telecamere continuano a registrare.
Dal punto di vista istruttorio ci si confronta con un dato oggettivo molto chiaro.
Tuttavia, ricordo che in quei giorni, mentre le immagini giravano, uscì un articolo di Adriano Sofri che sottolineava l’importanza di riflettere sulla mattanza di Santa Maria Capua a Vetere non solo per quello che ricostruiamo nell’istituto casertano ma, soprattutto, per quello che non possiamo vedere e non abbiamo visto in tutti gli altri istituti di pena.
Oltre ai video c’è un altro aspetto che è stato importante per dare un impulso alle indagini e all’istruttoria: c’è un Magistrato di sorveglianza che capì che qualcosa non quadrava. La magistratura di sorveglianza nel nostro ordinamento dal 1975 in poi ha non solo giurisdizione sull’esecuzione della pena ma ha anche il diritto/dovere di vigilanza. Ricordiamo che nel 1975 la Riforma penitenziaria, frutto delle lotte dentro e fuori al carcere, aveva archiviato l’esperienza normativa fascista dei penitenziari. Il legislatore aveva immaginato che in un conflitto interno di forze servisse attribuire il potere di controllo al giudice, terzo rispetto alle parti. Tale funzione a mia memoria non è mai stata esercitata.
Il Magistrato di sorveglianza, a differenza del Pubblico ministero e del Giudice con funzione giudicante, può ispezionare il proprio istituto all’improvviso. Nel caso di Santa Maria Capua a Vetere il Magistrato di sorveglianza effettuò dei colloqui successivamente alle proteste del 5 aprile. Non riuscendo a parlare con tutti i detenuti, segna i nominativi degli altri. Nei giorni successivi, il giudice chiese al personale di polizia di fare dei colloqui con queste persone, ma alcuni di questi erano stati massacrati e portati in isolamento per cui con una scusa o con l’altra gli fu impedito di incontrarli.
Mentre succede questo iniziano a circolare notizie sull’accaduto grazie soprattutto ai familiari che hanno visto in video chiamata i loro cari con i segni delle violenze e hanno avvertito anche noi di Antigone. Le voci arrivano al Magistrato di sorveglianza. Qualcosa non quadra e quindi decise di recarsi personalmente in istituto e scoprì il massacro.
I familiari presenteranno esposti sull’accaduto, alcuni detenuti tra i 300 comuni picchiati escono per fine pena ancora con i segni delle percorse. Queste persone denunceranno in prima persona quanto accaduto. C’è la denuncia del Garante nazionale Mauro Palma, e di quello regionale. Antigone e altre associazioni prendono posizione con altri esposti.
Tra queste fonti c’è una relazione che il Magistrato di sorveglianza inoltra ai colleghi della Procura della Repubblica. Questa informativa ha un peso notevole su tutta l’inchiesta.
Ricordo un elemento singolare che testimonia la tensione durante le fasi investigative. Una delle prime cose che viene fatta è il sequestro della videosorveglianza. Arrivano i carabinieri nel carcere per procedere al sequestro delle immagini della videosorveglianza. Non c’è collaborazione tra polizia penitenziaria e i carabinieri. Quest’ultimi hanno dovuto materialmente sradicare cioè portarsi via tutta la strumentazione di videosorveglianza del reparto: l’intera macchina!
Le immagini sono chiare.
Tuttavia, non ci sono invece registrazioni su quanto avviene al Danubio, il reparto punitivo in cui sono in isolamento punitivo i 15 detenuti.
- Si arriva così al processo tutt’ora in corso. Come è iniziato e chi sono gli imputati?
Il processo in Corte d’Assisi parte nel 2021.
Si sfilano all’inizio due imputati, due poliziotti che sono stati assolti non perché il fatto non sussiste anzi questo viene riconosciuto nella sentenza di assoluzione in cui il Giudice di primo grado dà delle fortissime responsabilità al comandante della polizia penitenziaria ma assolve i due per un’inaffidabilità dei riconoscimenti. Problema enorme questo dei riconoscimenti.
Comunque, al di là della vicenda dei due assolti con queste particolarità gli imputati oggi davanti alla Corte d’Assisi sono 105.
Si è iniziato con l’udienza preliminare, poi c’è stato l’abbreviato per i due di cui parlavamo che sono stati assolti. I Pubblici ministeri hanno impugnato la sentenza di assoluzione e lo abbiamo fatto anche noi come associazioni. Andremo a discutere l’appello a settembre di quest’anno chiedendo la revisione della sentenza, cioè la riqualificazione non del fatto perché questo sussiste ma ci sono una serie di questioni rispetto al concorso morale che per noi sono molto importanti, oltre alla questione dei riconoscimenti che va rivista.
Il troncone grosso del processo è ancora in dibattimento.
Nella storia repubblicana, questo rappresenta il più grande processo svolto contro le catene di comando della polizia della polizia penitenziaria e dell’amministrazione penitenziara. I reati per cui è richiesto l’accertamento della Corte di Assise vanno dal falso, al depistaggio, alla tortura contestata nella forma aggravata di aver cagionato la morte di un detenuto, Hakimi Lamine.
La storia di Hakimi è quella degli ultimi della terra: arriva in Italia dall’Algeria su un barcone, cerca di lavorare ma non riesce a trovare nulla e entra nel circuito della “delinquenza comune”. Inizia così la sua vicenda carceraria, gira vari istituti, tra le carte che lo riguardano si intravede l’esistenza di una doppia diagnosi da parte del personale sanitario (psichiatrica e affetto da dipendenze), non si sa se si ammala di schizofrenia in carcere o se già prima presentasse delle sintomatologie. Hakimi era uno dei 15, presenta delle grandi fragilità che non vengono assolutamente tenute in considerazione: picchiato duramente e sbattuto in isolamento. Fatto sta che in isolamento le sue condizioni si aggravano sempre di più fino a quando morirà forse per una intossicazione da farmaci.
Il Magistrato di sorveglianza era riuscito ad incontrarlo in isolamento, trovandolo con gli stessi indumenti del 6 aprile strappati e sudici. Non aveva nulla altro.
- A che punto siamo arrivati nel processo in dibattimento davanti alla Corte d’assise?
Stiamo esaurendo la lista dei testimoni dei Pubblici ministeri.
E’ stata un’istruttoria molto complessa. Finora abbiamo sentito tutte le persone offese, il personale di polizia giudiziaria, i consulenti tecnici e ne dobbiamo sentire ancora altri per quanto riguarda le trascrizioni delle chat tra gli agenti.
Il 30 di giugno 2025 inizierà una fase importante: inizieremo l’esame degli imputati.
A grandi linee è già emersa quale sarà la strategia della difesa: chi si è macchiato delle violenze peggiori sono gli agenti del personale esterno e non quello di Santa Maria. Inoltre, si vuole sostenere che le denunce fatte dai detenuti sono pretestuose: una sorta di ripicca nei confronti del personale interno.
C’è da registrare una sorte di rottura tra il personale civile e quello in divisa rispetto all’interpretazione di quanto successo.
Emblematica è la testimonianza del capo Dap. di allora, Basentini che ha rivendicato la legittimità dell’operazione. C’erano i presupposti per agire in tenuta antisommossa, dando un’interpretazione interessante sotto il profilo giuridico. Secondo il dirigente non si trattò di un’operazione di polizia giudiziaria per rinvenire materiale pericoloso ma un’operazione di ordine pubblico. Sono due operazioni diverse dal punto di vista tecnico e Basentini, in linea con il Provveditore imputato per tortura in questo processo, afferma che si è trattò di ordine pubblico: l’operazione era legittima, il personale al fronte la ha interpretata come un massacro.
E’ un po’ come la giustificazione del massacro compiuto dalle compagnie della XVI^ SS Panzergrenadier-Division, comandata da Max Simon e dai fascisti della Repubblica Sociale a Sant’Anna di Stazzema. Gli alti comandi delle SS hanno sempre difeso la legittimità dell’operazione di rappresaglia secondo il diritto di guerra. Il massacro è stato compiuto dai soldati.
- Soffermiamoci su questa parte e cioè la questione del personale esterno della polizia carceraria implicato nelle violenze. Cosa è successo?
Sono stati individuati 32 agenti ed è partito un nuovo filone investigativo. Si sono chiuse da poco le indagini e vedremo le scelte della Procura in relazione anche alle evidenze difensive. In questo caso come in altri che seguiamo ci si rende conto dell’importanza per l’identificazione in generale degli agenti, del numero identificativo che potrebbe dare una mano nella fase istruttoria.
- In ogni caso è veramente grave che non si sia arrivati velocemente ad identificare gli agenti esterni implicati, visto che non sono certo arrivati a Santa Maria Capua Vetere per caso, ma ci saranno stati ordini di servizio, trasporti organizzati, come si usa in una struttura militare. Non si sta parlando di una rissa in un bar ma di un’operazione che riguarda pubblici ufficiali, per cui tutto dovrebbe essere leggibile e trasparente ma invece, come per molti altri casi, c’è l’omertà generale dei partecipanti e della catena di comando.
C’è un tratto in questa storia che ricorda, ovviamente con le dovute proporzioni, quello che è successo in America Latina con le dittature. Ne ho parlato poco tempo fa partecipando ad un seminario sulla tortura in Argentina. Gli studenti denunciavano il patto del silenzio dei militari che hanno operato sotto Videla, silenzio che non ha permesso di scoprire tutti i colpevoli dei massacri.
Una sorta di patto del silenzio lo stiamo vedendo in Italia sui fatti di Santa Maria Capua Vetere.
Con le mie compagne e miei compagni di Antigone e di Napoli Monitor stiamo riflettendo proprio sull’osservazione attenta processo (e degli altri procedimenti per tortura) perché offre la possibilità di capire quando la violenza diventa strumento per ripristinare lo spazio penitenziario.
Poco ci importa la posizione del singolo, invece riteniamo necessario riflettere sulla violenza istituzionale, sull’uso della tortura e sulla forza.
Questo discorso vale anche per i medici che non hanno riferito niente sulle lesioni ai detenuti, eppure la loro deontologia lo prevederebbe, per gli agenti che non hanno picchiato personalmente i detenuti ma che l’indomani non sono andati alla Procura della Repubblica a dire “guardate è successa una cosa strana, eccezionale”.
L’istituzione riesce quasi sempre a muoversi in modo armonico, condivide nei propri segmenti interni una linea di intervento in situazioni di pericolo, magari non ufficiale ma ufficiosa. Un istinto animale di autoconservazione.
- Si può dire che se il processo in corso, il troncone con i 105 imputati, è importante e che anche il secondo che si aprirà potrebbe servire ancora di più ad aprire la discussione sulla valenza politica complessiva della rappresaglia alla base delle violenze a Santa Maria Capua a Vetere?
Sarà anche importante vedere come finisce con i due agenti assolti su cui abbiamo proposto appello, perché anche in quel caso il tema è quello dell’identificazione. Una rilettura delle identificazioni potrebbe essere d’aiuto nel processo contro i 32 agenti esterni.
Noi come Antigone ci siamo costituiti come parte civile insieme a ACAD, Yarahia Onlus…
Per valorizzare la presenza della società civile all’interno del processo sarebbe importante che a costituirsi fossero ancora più associazioni.
Seguire direttamente questo processo in modo militante ci dà l’opportunità di accendere i riflettori su questo laboratorio del potere, sulla violenza che emerge e viene organizzata dall’autorità costituita.
Il Decreto sicurezza, ora Legge, sappiamo che è molto complesso e prende di mira tutte le forme di organizzazione e di protesta. Per quanto riguarda il carcere risponde alla necessità di tutelarsi da vicende come quella di cui stiamo parlando perché è come se cambiasse le regole di ingaggio. L’approvazione del Decreto Sicurezza quanto peserà sulle vicende interne alle carceri?
Il decreto riscrive anche lo spazio penitenziario. Basti pensare che definiscono il concetto di rivolta (assolutamente non chiaro dal punto di vista giuridico) anche condotte passive.
Stiamo parlando delle normali dinamiche finora in carcere come espressione dei detenuti. Per restare sul caso di Santa Maria Capua a Vetere alcuni detenuti sono stati sentiti in merito alle proteste del 5 aprile, hanno dichiarato che si rifiutarono di tornare in cella, ammettendo di aver compiuto la resistenza ad un ordine; tuttavia, la Corte non ha trasmesso gli atti in Procura perché non individuati gli estremi della resistenza così come è conosciuta nel codice penale e ha continuato a sentire quelle persone come testimoni semplici. La nuova legge incrimina in modo esplicito anche queste condotte pacifiche.
- Oltre a questo aspetto di snaturamento della fattispecie della resistenza passiva va anche segnalata la pericolosità delle norme sulle forze dell’ordine ad iniziare dalla questione della loro tutela legale. Insomma un insieme di misure particolarmente pericolose. Cosa ne pensi?
La riflessione deve essere ampia, provo solo a porre dei punti iniziali a partire dalla vicenda di Santa Maria Capua a Vetere.
Partendo dalla mia personale convinzione dell’idea di giustizia come riproduzione degli apparati di dominio, ritengo che il reato di tortura, imperfetto e poco chiaro, sia stato utile per accendere un riflettore sul potere. Il legislatore con la legge di conversione dell’11 aprile 2025, n. 48, offre un aiuto sostanziale alle forze dell’ordine proprio in relazione ai procedimenti in cui sono coinvolte. Il capo III della legge titola esplicitamente: Misure in materia di tutela del personale delle Forze di polizia, delle Forze armate e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, nonché degli organismi di cui alla legge 3 agosto 2007, n. 124.
Si sta legittimando una distinzione problematica tra società civile e personale in divisa con la previsione di facoltà e tutele differenti.
Anche in una società basata sul “diritto borghese”, si sta creando un’area di esclusività: è il segno di inizio di una nuova fase e la chiusura di un ciclo secolare di costruzione formale delle regole delle interazioni collettive.