Governo, nuovo attacco al lavoro povero

Governo, nuovo attacco al lavoro povero

Ancora una volta ci si trova davanti alla solita polpetta avvelenata. Il Governo, con l’articolo 40-ter inserito nella finanziaria di prossima approvazione, ha sferrato un formidabile attacco al lavoro povero. Nel paese con i salari tra i più bassi e stagnanti d’Europa, l’offensiva viene portata senza rivendicarne la paternità politica, in modo da immunizzarsi dai contraccolpi potenzialmente nefasti in una fase sostanzialmente pre-elettorale. Secondo l’ultimo rapporto dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, l’Italia è l’unico paese del G20 dove i salari reali –cioè quelli depurati dall’inflazione– sono diminuiti tra il 2008 e il 2024. Nel resto del mondo si cresceva e noi arrancavamo. Mentre il Governo affermava che il salario minimo legale non era una soluzione, al contempo, la magistratura ha riportato la dignità della persona messa a lavoro al centro della scena. Come noto, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 27711 del 2 ottobre 2023, ha affermato che ai fini della individuazione della retribuzione equa e sufficiente prevista dall’articolo 36 della Costituzione si deve, per prima cosa, verificare la stessa sulla base delle determinazioni previste dal contratto collettivo stipulato dalle associazioni sindacali più rappresentative. Se ciò non è sufficiente, perché il CCNL detta minimi salariali molto bassi, il giudice deve valutare non soltanto i trattamenti previsti da altri contratti collettivi di settori affini ma anche gli indicatori economici e statistici utilizzati per misurare la soglia di povertà come, ad esempio, l’indice ISTAT, i dati Uniemens per il calcolo del salario medio, il valore della NASPI, i trattamenti di integrazione salariale in presenza di sospensione dell’attività. Per la prima volta, dunque, la retribuzione equa e sufficiente a garantire un’esistenza libera e dignitosa è stata parametrata al costo della vita effettivo, non limitandosi a un mero rimando ai parametri retributivi individuati dai contratti collettivi nazionali. Con la norma inserita surrettiziamente nel corpo del testo della manovra di bilancio, il Governo prova a sabotare gli effetti di questa pronuncia. Si stabilisce infatti che nel caso in cui il Giudice accerti “la non conformità all’articolo 36 della Costituzione dello standard retributivo stabilito dal contratto collettivo di lavoro” tenuto conto dei livelli di produttività del lavoro e degli indici del costo della vita, ebbene “il datore di lavoro non può essere condannato al pagamento di differenze retributive o contributive per il periodo precedente la data del deposito del ricorso introduttivo del giudizio se ha applicato lo standard retributivo previsto dal contratto collettivo stipulato a norma dell’articolo 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 8”. Dunque, da una parte si costringe, per la prima volta, il lavoratore ad agire in giudizio in costanza di rapporto per non perdere le differenze retributive che matura percependo un salario da fame, rischiando così anche di perdere il posto di lavoro. Ma se invece non riesce ad andare davanti al giudice per il timore di rappresaglie in costanza di rapporto, ebbene il costo che dovrà pagare sarà perdere quanto maturato nel periodo antecedente al deposito del ricorso, dovendosi accontentare del salario miserabile percepito. Questo “ricatto” è ovviamente finalizzato a spostare denaro dal lavoro alle imprese incentivando ulteriormente l’abbattimento del costo del lavoro sotto la soglia della dignità. Tale accanimento contro le lavoratrici e i lavoratori che vengono retribuiti miserabilmente non è accettabile, e come giuristi democratici certamente ci impegneremo a contrastare l’applicazione di tale dispositivo normativo, ove approvato.

Alessandro Brunetti

P.s.: allo stato, pare che il governo stia facendo marcia indietro sul provvedimento, forzato dal Presidente della Repubblica. Ciò naturalmente non ne muta le intenzioni, per cui l’attenzione dovrà restare comunque alta.

Reazioni nel fediverso