All’interno dell’impegno per i 5 referendum del giugno 2025 vi proponiamo un contributo del Presidente di Giuristi Democratici Avv. Roberto Lamacchia per approfondire i 5 quesiti e l’importanza della partecipazione.
L’intervento è stato realizzato al Convegno Referendum 5 Sì – 8 maggio 2025 La Poderosa Torino.
Stiamo per vivere un momento particolarmente rilevante per la democrazia italiana; il voto sui quesiti referendari, infatti, rappresenta sotto molti punti di vista, un’occasione imperdibile per riaffermare i valori della nostra Costituzione.
In primo e preliminare luogo, poiché la votazione referendaria richiede per la sua validità la partecipazione del 50%+1 degli aventi diritto al voto, già il raggiungimento del quorum, prescindendo per un attimo dal risultato finale, rappresenterebbe un segnale di inversione di tendenza significativo circa la partecipazione dei cittadini alla gestione dello Stato.
Il raggiungimento del quorum, dunque, sarebbe comunque un grande risultato ed io sono peraltro convinto che in quel caso il risultato dello scrutinio non potrebbe che essere favorevole all’abrogazione delle norme sottoposte al vaglio referendario.
La fondatezza di tale convinzione è rafforzata dal comportamento del Governo, delle destre, dell’establishment, dei giornali, delle televisioni che tutti evitano accuratamente di dare, quanto meno, la notizia dell’esistenza dei referendum, quando non invitano espressamente a non andare a votare; insomma, la destra punta sull’astensionismo, sul disinteresse dei cittadini, disinteresse purtroppo confermato dalla graduale, ma sensibile, riduzione dei votanti alle varie elezioni succedutesi in questi anni: dunque, basterebbe questo per far comprendere come il raggiungimento del quorum ed il risultato probabilmente positivo della votazione per quanto ho appena detto, rappresenterebbe una clamorosa sconfitta per l’attuale maggioranza.
In definitiva, con la partecipazione al voto referendario si affiderebbe ai cittadini la decisione circa la propria vita in una materia così delicata come il lavoro e, come afferma il Prof. Ferrajoli, grande e raffinato giurista, “un successo di questi referendum abrogativi equivarrebbe a un risveglio della ragione e, soprattutto, della coscienza democratica del nostro paese.”.
Passando, ora al merito dei quesiti, non vi può essere dubbio circa il fatto che il voto debba essere un SI da parte di tutti quei cittadini fedeli ai valori costituzionali di lavoro, dignità, uguaglianza.
Infatti, se si ha riferimento alla Costituzione e se la si esamina rispetto all’attuale situazione, non si potrà che comprendere come la scelta della presentazione dei quesiti referendari sia stata l’unica risposta che la situazione politica consentiva per ritornare a quei valori sanciti nella Carta.
E’ opportuno, a questo punto, ricostruire l’evoluzione e poi l’involuzione della normativa in tema di lavoro.
Le norme-cardine dell’impianto lavoristico sono state, e lo sono in parte anche oggi, lo Statuto dei Lavoratori e la legge 533/73 sul processo del lavoro.
Con queste due norme, una di diritto in buona parte sostanziale ed una di diritto processuale, si era realizzata una situazione di favore per i lavoratori, considerati l’anello debole e dunque da tutelare, del rapporto di lavoro.
Creazione di specifici diritti, loro tutela, rapidità nel loro accertamento, favor lavoratoris nel processo, pubblicità dello stesso, oralità del processo erano tutti elementi che miravano a garantire il lavoratore circa il rispetto dei suoi diritti.
Si trattò di norme assai incisive che segnarono l’avvento di una stagione di maggiori diritti, maggiori protezioni, migliori condizioni di vita.
Naturalmente, il padronato si riorganizzò e lentamente, ma gradualmente, recuperò buona parte di quanto aveva perso a favore dei lavoratori, sfruttando le condizioni che il mercato internazionale del lavoro offrivano: libertà di circolazione dei capitali, delocalizzazione delle attività produttive ricerca delle condizioni ambientali di miglior favore per gli investitori, utilizzo esasperato della tecnologia per sostituire il lavoro umano, affermazione della incontestabile egemonia del mercato sulla società, hanno portato ad una progressiva mortificazione dell’elemento umano e ad un venir meno di quei progressi nei diritti che i lavoratori avevano faticosamente conquistato
Si è giunti, così, all’entrata in vigore di norme che hanno indebolito la posizione dei lavoratori, che oggi si trovano privati tendenzialmente di molti dei loro diritti; ciò è avvenuto principalmente con l’approvazione del Collegato Lavoro, della Legge Fornero e del Jobs Act e di molte altre innovazioni normative.
La sostanziale modifica dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, invocata da anni dal centro-destra e dal mondo dell’imprenditoria e respinta in passato dalla dura opposizione dell’opinione pubblica, si è infine realizzata proprio grazie all’azione di un governo di centro-sinistra.
A poco a poco la tutela del lavoro umano incentrato sul modello del lavoro subordinato è stata ridimensionata svuotando il contenitore del lavoro a tempo indeterminato attraverso l’invenzione di una miriade di forme contrattuali a titolo precario, fino alla quasi totale liberalizzazione del lavoro a tempo determinato. Alla fine, grazie al Job’sAct di Renzi, è stata rimossa anche la garanzia che teneva in piedi tutto l’impianto dei diritti stabiliti dallo Statuto dei lavoratori attraverso la sostanziale cancellazione dell’art. 18, la norma che reprimeva il licenziamento illegittimo, assicurando un regime di cosiddetta stabilità reale.
La situazione è divenuta gravissima, al punto di portare molti studiosi della materia ad affermare che il diritto e processo del lavoro sono morti!
Dunque, in assenza di una capacità, ed anche, in molti casi, di una volontà di incidere da parte della sinistra per porre quanto meno un argine al crollo delle garanzie per i lavoratori, non è restato altro strumento di opposizione che l’utilizzo dello strumento referendario.
Sono, così, stati raccolti 4 milioni di firme a sostegno dei quesiti referendari, segnale estremamente importante che dà l’immagine della rilevanza dei problemi sollevati dai quesiti.
Ed oggi siamo chiamati a prendere, noi cittadini, una decisione su questioni di fondo, che attengono alla nostra vita, una scelta di partecipazione democratica che rappresenti anche un segnale per la sinistra, per tutta la sinistra, che si deve reagire al clima di rassegnazione che pare prevalere.
Che cosa propongono i quesiti referendari? L’abrogazione, cioè la cancellazione di una serie di norme che hanno via via indebolito la tutela dei diritti dei lavoratori, notoriamente già parte debole nel rapporto di lavoro.
PRIMO QUESITO
Valutandoli, ora, singolarmente, mi pare opportuno partire dal quesito n. 1, che appare come il più rilevante e bandiera di una forte opposizione sociale in questi anni.
Si tratta della richiesta di abrogazione del Jobs Act, la famigerata legge di Renzi, che ha ulteriormente ridotto le garanzie (già precedentemente diminuite dalla riforma Fornero) per i lavoratori illegittimamente licenziati. Come ricorderete, lo Statuto dei Lavoratori aveva previsto per le imprese con più di 15 dipendenti, la reintegrazione nel posto di lavoro ed il risarcimento pieno dei danni in caso di accertata illegittimità del licenziamento. Ne erano seguiti, da parte del padronato, reiterati tentativi di abrogare o modificare quella norma, tutti falliti per la forte opposizione popolare : ricordo tra tutte la manifestazione contro l’attacco all’art. 18 S.L. che portò in piazza oltre 3 milioni di persone nel 2002 a Roma, manifestazione che fece cadere la proposta di cambiamento dell’art. 18.
Ciononostante, continuava senza sosta il lavoro per depotenziare quello strumento di difesa dei lavoratori e si arriva, così, alla cd. Legge Fornero che limita la reintegrazione piena, accompagnata dal pieno risarcimento del danno subito, ai soli casi di discriminazione, nullità o oralità del licenziamento, introduce una reintegrazione ridotta, accompagnata, cioè da un’indennità risarcitoria quantificata in misura massima forfettizzata per quei casi di inesistenza dei fatti addotti quale ragione del licenziamento o per quelli che fossero puniti, a sensi dei CCNL con sanzioni conservative del posto di lavoro; infine per tutti gli altri casi, introduce il solo ristoro economico.
L’abbattimento dell’art. 18 S.L si conclude, infine, proprio con il Jobs Act e la cosa è particolarmente grave e rilevante perché la legge viene presentata ed appoggiata dal PD, in quel momento al governo.
Con quella norma si introduceva una differenza di trattamento tra i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, per i quali valevano le garanzie preesistenti e quelli assunti dopo quella data.
La legge veniva presentata con il titolo di “contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti”, ma nessuno ha mai capito quali fossero gli accrescimenti delle tutele promesse dal titolo!
Per questi lavoratori il diritto alla reintegrazione piena era limitato alle ipotesi di licenziamenti nulli, discriminatori o orali; la reintegrazione ridotta era prevista, come già dalla legge Fornero, accompagnata,da un risarcimento non superiore a 12 mensilità, per i casi di licenziamento fondato su fatti inesistenti. Per tutti gli altri tipi di licenziamenti illegittimi, in particolare per i licenziamenti collettivi, era previsto un risarcimento assai modesto; in seguito, poi, ad interventi della Corte Costituzionale, il criterio di quantificazione del risarcimento è stato mutato, consentendo al Giudice di tener conto della reale situazione del lavoratore e di determinare conseguentemente il danno subito.
Ora, il quesito referendario chiede l’abrogazione totale di quella legge, con la conseguenza, in caso di esito positivo della proposta, che si tornerà all’applicazione dell’art. 18 S.L. come modificato dalla Legge Fornero. Dunque, il risultato non potrà essere il ritorno al vecchio art. 18, posto che la normativa sul punto della L. Fornero non era più in vigore e dunque non si poteva chiederne l’abrogazione: in ogni caso un miglioramento rispetto alla situazione attuale, soprattutto in relazione ai licenziamenti collettivi.
SECONDO QUESITO
Il secondo quesito riguarda, invece, l’indennità risarcitoria nei casi di licenziamenti illegittimi nelle imprese con meno di 15 dipendenti, indennità che é prevista in misura estremamente ridotta, tra le 3 e le 6 mensilità, incrementabili per anzianità di servizio superiori ai 10 anni.
Come sappiamo, la L. 604/1966 aveva previsto quella indennità sulla base delle condizioni del mercato del lavoro di quell’epoca, quando le piccole imprese avevano natura prevalentemente familiare e dunque, in quell’ottica, era sembrato opportuno bilanciare la tutela dei lavoratori con la necessità di non danneggiare il piccolo imprenditore con disponibilità economiche ridotte.
Inoltre, a quell’epoca, le possibilità per il lavoratore licenziato di reperire un altro posto di lavoro in tempi contenuti erano certamente superiori a quelle odierne.
Oggi , da un lato, la situazione è ben diversa data l’esistenza diffusa di aziende con pochi dipendenti, ma con un elevato fatturato; sotto altro profilo, poi, il mercato del lavoro è in grave crisi, nonostante lo sbandierato, da parte del Governo, aumento dei lavoratori occupati, magari con contratti a termine di pochi giorni o di pochi mesi, con la conseguenza di una estrema difficoltà per il lavoratore licenziato, di reperire altra occupazione.
Da qui è nata la necessità di intervenire con il quesito referendario che, se approvato, consentirebbe al Giudice di determinare l’indennità risarcitoria tenendo conto della reale situazione di danno subito dal lavoratore anche in relazione alle dimensioni e alla forza economica del datore di lavoro.
TERZO QUESITO
Il terzo quesito referendario attiene, invece, al problema dei contratti a termine.
Si tratta di uno dei settori in cui appare maggiormente evidente la precarizzazione dei rapporti di lavoro.
Come saprete, la situazione normativa da cui si parte è costituita dalla L. 230/1962 che, premesso che la regola era rappresentata dal contratto a tempo indeterminato, regolamentava le assunzioni a termine, consentendole solo in presenza di specifiche esigenze; successivamente un’ondata di liberalizzazione ha portato ad allargare a dismisura le assunzioni a termine senza una causale specifica, attraverso la L. Fornero, il Decreto Poletti ed infine il Jobs Act; una parziale correzione di tiro è avvenuta, poi, nel 2018 con il Decreto Dignità che ha, però, mantenuto la possibilità di stipulare contratti a termine senza causale pur limitando ad un anno tale possibilità.
In definitiva, si tratta di una norma che consente al datore di lavoro di sfruttare la possibilità di contratti a termine, entro un anno senza bisogno di specificare perché non provveda ad assumere il lavoratore a tempo indeterminato e che consente anche di stipulare contratti con durata superiore, non eccedente i 24 mesi, in presenza di alcune condizioni specifiche.
Con l’abrogazione voluta dal referendum, al contratto di lavoro subordinato potrebbe essere apposto un termine di durata non eccedente i ventiquattro mesi, ma solo in due ipotesi tra quelle precedentemente indicate dalla norma : a) nei casi previsti dai contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative; b) in sostituzione di altri lavoratori.
In caso di vittoria dei “si” verrebbe, pertanto, limitato il lavoro precario e il ricorso al contratto a termine verrebbe ricondotto a situazioni, di carattere oggettivo, quale la necessità di sostituzione di lavoratori assenti o altre, indicate dai contratti collettivi, stipulati non da una qualunque associazione sindacale, ma da quelle dotate di una adeguata rappresentatività.
QUARTO QUESITO
Particolarmente importante, poi, appare il quarto quesito referendario, relativo alla sicurezza sul lavoro negli appalti.
Purtroppo le cronache ci danno quotidianamente notizia di gravi infortuni sul lavoro, sovente determinati dalla catena di subappalti che rendono difficoltoso, se non inesistente, il controllo sul rispetto delle misure di sicurezza nei cantieri di lavoro.
La richiesta di referendum popolare punta all’abrogazione dell’art. 26, comma 4, secondo periodo del d.lgs. n.81/2008, limitatamente alle parole «Le disposizioni del presente comma non si applicano ai danni conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici.»
Lo scopo è quello di eliminare la limitazione della responsabilità che, secondo la normativa oggi in vigore esonera il committente, l’appaltatore e il subappaltatore, dal rispondere, non solo in via diretta (art. 26, 3° comma), ma persino in via solidale (art. 26, 4° comma) del danno patito dalle vittime del lavoro, quando l’infortunio inerisca al “rischio specifico” dell’attività dell’appaltatore o del subappaltatore prescelti dai committenti e subcommittenti per l’esecuzione di un’opera o di un servizio.
Il referendum mira a garantire quanto meno l’integrale ed effettivo risarcimento del danno delle vittime, intende quindi promuovere il rafforzamento della sicurezza e della salute dei lavoratori, in quanto anche la responsabilità civile solidale può assolvere a una funzione di deterrenza, spingendo chi ha delegato ad altri i propri obblighi in materia – introducendoli nei luoghi dell’impresa – a non disinteressarsi del tutto della sicurezza del lavoro.
Nel caso di vittoria nel referendum, il committente sarà tenuto a verificare il rispetto delle misure di sicurezza sul lavoro da parte dei subappaltatori, pena la propria responsabilità patrimoniale.
QUINTO QUESITO
Ai 4 referendum sul lavoro appena descritti, i presentatori dei quesito ne hanno aggiunto un quinto, apparentemente scollegato dagli altri; si tratta della richiesta di abrogazione di alcune frasi contenute nella normativa sulla concessione della cittadinanza previste dalla L. 91/1992. Dicevo che apparentemente sembra scollegato; in realtà, gli extracomunitari sono i lavoratori più esposti al rischio di sfruttamento e di infortunio sul lavoro, in quanto sovente sotto ricatto di denuncia qualora tentino di far valere i loro diritti.
Per questa ragione, i promotori del referendum hanno ritenuto opportuno intervenire su detta normativa.
La L. 91/92 distingue nettamente i casi in cui la persona «è cittadina italiana» (ad es. la nascita da genitore italiano, il noto ius sanguinis) dai casi in cui la «cittadinanza può essere concessa»: non potendo intervenire sulla prima ipotesi, che sarebbe compito del legislatore trattare, si è dovuto tentare un intervento sulla seconda ipotesi, quella della cd “naturalizzazione”: allo straniero che risiede legalmente sul territorio nazionale da almeno 10 anni «può essere concessa» la cittadinanza.
Ebbene in questo caso la norma prevede alcune ipotesi derogatorie nelle quali il requisito decennale può essere ridotto a cinque anni; cancellando il riferimento alle ipotesi derogatorie, si ottiene di generalizzare il periodo quinquennale e di sostituirlo, per tutti, a quello decennale.
Si tratta, dunque, di un miglioramento della situazione, tenendo conto che, comunque, 5 anni sono un periodo già ritenuto congruo dalla Corte Costituzionale che ha rilevato come detto termine fosse rimasto inalterato per oltre 80 anni prima che venisse raddoppiato dalla L. 91/1992; dunque, si tratta di un termine che consente di verificare l’integrazione dell’extracomunitario alla nostra società, tenendo, altresì, conto che a quel periodo va poi aggiunto il periodo necessario per l’espletamento delle pratiche per il riconoscimento della cittadinanza, periodo variabile, ma normalmente non inferiore ai 2-3 anni.
In conclusione, mi pare che tutti i quesiti referendari proposti meritino il nostro voto favorevole, nel tentativo, come afferma Ferrajoli, di “restituire vigore e vitalità alle nostre malandate istituzioni…. E’ un’occasione storica irripetibile: la possibilità di una svolta, di un’inversione di rotta della nostra politica”.
Torino, 8 maggio 2025
Roberto Lamacchia