Sulla mancata esecuzione del mandato d’arresto contro il torturatore Almasri

Sulla mancata esecuzione del mandato d’arresto contro il torturatore Almasri

Ospitiamo un ampio approfondimento a cura del Prof. Paolo De Stefani, docente di Diritto Internazionale presso il Centro di Ateneo A.Papisca- Università di Padova e Carlotta Rossato – PHD in Human Rights and Multilevel- Governance – Università di Padova, che ringraziamo per l’impegno e la chiarezza, sempre più necessaria in questa vicenda

Il nome di Najeem Osama Habish, detto Almasri, capo della polizia giudiziaria libica, è ormai noto alle cronache. È la prima volta che un sospettato della Corte penale internazionale viene catturato in Italia. Proprio in virtù dell’attenzione rivolta alla questione dai media e volendo cogliere la momentanea ventata di popolarità che ha investito il diritto internazionale penale, appare opportuno fornire un chiarimento giuridico della vicenda, così da contribuire a sfatare letture approssimative e svianti.

Per ricapitolare i fatti per come sono stati ricostruiti in questi giorni:

  • Il 18 gennaio la Camera Preliminare I della Corte penale internazionale (Cpi) emetteva un mandato di arresto nei confronti di Almasri per crimini di guerra e contro l’umanità asseritamente commessi nel carcere di Mitiga dal 15 febbraio 2015 in poi. Questo si inserisce nel contesto delle indagini della Cpi sulla situazione in Libia (link). Risultava infatti che Almasri si trovasse in Europa.
  • Il giorno stesso la cancelleria della Cpi trasmetteva la richiesta di arresto e consegna del sospettato a sei Stati parte dello Statuto di Roma che istituisce la Cpi, tra cui l’Italia, attraverso i canali designati da ciascuno Stato e previa consultazione e coordinamento con essi per assicurarne l’appropriata ricezione e attuazione. La Corte trasmetteva anche informazioni in tempo reale circa la possibile ubicazione e gli spostamenti del sospettato attraverso l’area Schengen. Inoltre, la Cpi richiedeva ad Interpol di emettere una red notice – un’allerta internazionale relativa ad una persona ricercata su cui pende un mandato d’arresto (possibilità prevista dall’art. 87 c.1 lett. b Statuto di Roma).
  • Sempre secondo le ricostruzioni, Almasri veniva localizzato a Torino il 19 gennaio, dopo che aveva già viaggiato per l’Europa per quasi due settimane e superato indenne due controlli di polizia, in Italia e in Germania.
  • Sulla base della red notice, il 19 gennaio la squadra mobile della Digos di Torino procedeva all’arresto di Almasri, sorpreso in albergo. [1]
  • Lo stesso 19 gennaio, la polizia inviava comunicazione dell’avvenuto arresto alla Corte d’Appello di Roma, competente per la procedura di consegna del sospettato alla Cpi, nonché al Ministero della Giustizia. Tale dato emerge dalla stessa ordinanza della Corte d’Appello.
  • Il 21 gennaio il Ministro della Giustizia affermava di stare ‘valutando’ la trasmissione della richiesta formulata dalla Cpi al procuratore generale, ovvero di fare quanto previsto dall’art. 4, legge 237/2012.
  • Il giorno stesso la Corte d’Appello di Roma ordinava la scarcerazione di Almasri per irritualità della procedura d’arresto, dovuta al mancato previo coinvolgimento del del Ministro della giustizia .

Per quanto riguarda l’analisi giuridica della vicenda, essa si incentra sulla normativa di attuazione dello Statuto di Roma istitutivo della Cpi che disciplina i rapporti di cooperazione tra Italia e Cpi, ovvero la legge n. 237 del 2012.

Centrali nell’analisi sono gli articoli 2, che attribuisce ruolo cruciale al Ministro della Giustizia nel rapporto di cooperazione con la Cpi;[2] 4, che impone al predetto Ministro di trasmettere le richieste provenienti dalla Cpi al procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma;[3] e 11, che regolamenta la procedura di consegna del sospettato alla Cpi richiedendo al procuratore generale di richiedere l’applicazione della misura cautelare alla Corte d’appello di Roma una volta ricevuti gli atti.[4] La legge in questione non regolamenta espressamente l’arresto su iniziativa della polizia giudiziaria nei casi d’urgenza, e già al tempo della sua adozione era stata affermata l’inadeguatezza di tale impostazione, che riflette un modello datato, visibile anche, ad esempio, nel ruolo rilevante riservato al Ministro della Giustizia. 

Nell’ordinanza emessa il 21 gennaio la Corte d’appello di Roma ha dato una lettura restrittiva della l. 237/2012, secondo la quale ‘la procedura applicativa della misura cautelare prevista dalla predetta normativa speciale, prescrive una prodromica e irrinunciabile [corsivo aggiunto] interlocuzione tra il Ministro della Giustizia e la procura generale’, escludendo il potere della polizia di agire di propria iniziativa, anche in casi d’urgenza. Secondo tale interpretazione, pertanto, l’arresto di Almasri, avvenuto da parte della polizia giudiziaria in ottemperanza della red notice dell’Interpol, dovrebbe considerarsi affetto da un vizio procedurale. Nonostante l’art. 3 della l. 237/2012 rinvii espressamente al codice di rito in materia estradizionale per quanto non diversamente disposto,[5] applicando il principio ubi lex voluit dixit; ubi noluit tacuit, la Corte ha ritenuto che l’art. 716 c.p.p. – che prevede la possibilità di arresto d’urgenza da parte della p.g. – non sia applicabile in quanto la normativa speciale non prevede espressamente tale ipotesi.

Diverse sono le contro-argomentazioni a tale interpretazione, nonché gli appunti che si possono muovere al comportamento tenuto dalle autorità governative e giudiziarie:

  • Come sottolineato dalla dottrina, il rinvio alla normativa ordinaria contenuta nel codice di rito operato dall’art. 3 della l. 237/2012 permette l’applicazione dell’art. 716 c.p.p., il quale regolamenta per l’appunto l’arresto nei casi d’urgenza da parte della polizia di una persona oggetto di mandato di arresto internazionale a fini estradizionali. La lettura contraria operata dalla Corte d’Appello porta al risultato paradossale (che si è puntualmente realizzato) di non permettere l’arresto urgente di sospettati di crimini internazionali, facilitandone la fuga. Merita sottolineare che l’impunità così ottenuta riguarda proprio i crimini più gravi per la comunità internazionale per la cui repressione si sono accordati i 125 Stati che hanno aderito allo Statuto di Roma.  La proposta interpretazione appare coerente con il ruolo meramente esecutorio assegnato al Ministro dalla l. 237/2012 (l’art. 4 recita: il Ministro della giustizia ‘dà corso’ alle richieste formulate dalla Cpi; l’art. 13 c. 7 indica che il Ministro ‘provvede’ con decreto sulla richiesta di consegna). La lettura della Corte così restrittiva da impedire l’esecuzione del mandato d’arresto nei casi di maggiore urgenza, inoltre, risulta contraria alla stessa ratio della l. 237/2012, adottata per dare attuazione all’obbligo dell’Italia di cooperazione con la Cpi ai sensi dell’art. 86 dello Statuto di Roma.

Altro elemento a favore dell’applicazione dell’art. 716 c.p.p. in virtù della lacuna della normativa speciale deriva dalla disposizione dell’art. 696 c.p.p. Essa stabilisce che in materia di estradizione/cooperazione giudiziaria si applicano le norme del codice di rito nel caso in cui le convenzioni internazionali in vigore e le norme di diritto internazionale generale manchino o non dispongano diversamente.

  • La vicenda presenta un’ulteriore circostanza contraria alla disciplina in materia di cooperazione con la Cpi. Il Ministro della Giustizia non viene investito di un potere discrezionale quanto all’implementazione del mandato di arresto emesso dalla Cpi. Non si capisce perché, pertanto, egli abbia affermato di stare ‘valutando’ la trasmissione della richiesta di consegna una volta pervenutagli dalla Cpi. Né la legislazione in materia ex l. 237/2012 (che all’art. 13 disciplina le ipotesi di rifiuto della consegna solo in casi determinati) né lo Statuto Roma, infatti, prevedono un tale intervento (invece previsto da normativa ordinaria estradizionale ex c.p.p. ). Dunque, ubi noluit tacuit, si potrebbe dire.
  • Nonostante l’arresto sia stato eseguito dalla polizia giudiziaria di propria iniziativa, il Ministro avrebbe comunque potuto sanare il supposto vizio procedurale ex post, trasmettendo successivamente la richiesta alla procura generale, per lo meno entro il termine di 48 ore previsto in via generale per la richiesta della convalida dell’arresto da parte dell’autorità giudiziaria.
  • Il procuratore generale stesso, in assenza della richiesta proveniente dal Ministro della Giustizia, avrebbe potuto richiedere la custodia del sospettato quale misura cautelare in virtù del mandato d’arresto pendente della Cpi, se non altro quale elemento indiziante del reato di tortura per il quale, come vedremo, vige il principio aut dedere aut iudicare. Lo stesso procuratore, invece, procedeva a rilevare l’irritualità dell’arresto e a richiedere la scarcerazione di Almasri.
  • La Cpi ha affermato nel suo comunicato che, una volta eseguito l’arresto, ‘ha continuato ad impegnarsi con le autorità italiane per garantire l’effettiva esecuzione di tutti i passi previsti dallo Statuto di Roma per l’attuazione della [propria] richiesta. In questo contesto, la Cancelleria ha anche ricordato alle autorità italiane che, nel caso in cui individuino problemi che possano ostacolare o impedire l’esecuzione della presente richiesta di cooperazione, dovrebbero consultare la Corte senza indugio per risolvere la questione.’ La consultazione con la Cpi nel caso di problemi da parte di uno Stato membro nella procedura di attuazione di una richiesta della Corte è anche prevista dall’art. 97 dello Statuto di Roma. Ci si chiede se questa consultazione ha avuto luogo e, poiché appare evidente che non si è svolta, quali ragioni l’abbiano esclusa.

Conseguenze: profili di responsabilità dello Stato italiano

Diverse sono le conseguenze internazionalistiche che il comportamento delle autorità italiane comporta.

  • In primis, la mancata consegna di Almasri alla Cpi tramite la sua scarcerazione e rimpatrio rappresenta la violazione da parte dello Stato italiano dell’obbligo di cooperazione ‘piena’ con la Corte, espressamente sancito dall’art. 86 dello Statuto Roma, trattato internazionale vincolante per l’Italia (ratificato con legge n. 232 del 1999). La Corte potrebbe avviare una procedura formale di infrazione dell’obbligo di cooperazione, la quale potrebbe avere rilevanti ripercussioni politiche e diplomatiche. L’art. 87 c. 7 dello Statuto i Roma prevede infatti che ‘la Corte può […] deferire la questione all’Assemblea degli Stati Parte o, nel caso in cui il Consiglio di Sicurezza abbia riferito la questione alla Corte, al Consiglio di Sicurezza.’
  • La responsabilità dell’Italia si profila indirettamente anche nei confronti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, come abbiamo appena visto, anche se l’ipotesi del coinvolgimento del Consiglio di Sicurezza rimane piuttosto remota.. L’indagine della Corte sulla situazione in Libia, infatti, è stata avviata a seguito della risoluzione n. 1970 del 2011 adottata dal Consiglio di Sicurezza ai sensi del Capitolo VII della Carta dell’Onu, meccanismo che ha attivato la giurisdizione della Cpi sul caso secondo l’art. 13(b) dello Statuto. Vero è che uno dei giudici della Camera Preliminare che ha emesso il mandato d’arresto ha votato contro tale misura, ritenendo in generale infondata l’azione del Procuratore della Cpi su ipotesi di crimini internazionali commessi in Libia a partire dal 2014-15 in quanto non direttamente riconducibili, a suo dire, alla situazione individuata dalla Risoluzione del Consiglio di Sicurezza. Questa rimane tuttavia una opinione di minoranza, formulata dalla giudice in questione non solo con riguardo al mandato d’arresto emesso per Almasri ma anche in relazione agli altri sei atti analoghi resi pubblici dalla Cpi nell’ottobre 2024.
  • Alla luce del fatto che Almasri è sospettato, tra l’altro, di aver commesso atti di tortura e visto che l’Italia è Stato parte della Convenzione Onu contro la tortura, anche le obbligazioni derivanti da questo trattato si applicano nel caso di specie. In particolare, la Convenzione contro la tortura prevede l’obbligo di provvedere alla custodia o adottare le misure necessarie per trattenere un sospettato intercettato sul territorio di uno Stato parte (art. 6). Inoltre, la Convenzione stabilisce l’obbligo di consegnare il sospettato all’autorità procedente o perseguirlo penalmente per tale reato (cosiddetto obbligo aut dedere aut judicare, art. 7 c.1). Questa alternativa rappresenta un’obbligazione erga omnes partes, ovvero operante nei confronti di tutti gli altri Stati parte della Convenzione, i quali potrebbero, pertanto, chiamare lo Stato italiano a rispondere della sua violazione di fronte alla Corte internazionale di giustizia, autorità competente in tal caso. L’Italia ha anche accettato la competenza del Comitato contro la tortura a trattare eventuali comunicazioni relative al non rispetto della Convenzione da parte di altri Stati parte o di individui (articoli 21 e 22). 
  • L’Italia, inoltre, è parte di un accordo che ha creato una squadra comune di indagine sotto l’egida della Convenzione Onu contro la criminalità organizzata transnazionale (art. 19) assieme alle autorità di Paesi Bassi, Regno Unito, Spagna e all’Ufficio del procuratore della Cpi, con il supporto di Europol. Tale squadra è finalizzata a facilitare la cooperazione nelle indagini riguardanti crimini commessi contro migranti e rifugiati in Libia. Il rilascio di Almasri risulta in contrasto anche con l’obiettivo di tale iniziativa e mina la credibilità dell’Italia nei confronti delle controparti.

La vicenda Almasri ha visto l’Italia dare priorità ai propri interessi politici in plateale contrasto con i suoi impegni internazionali e in violazione degli stessi. Essa crea un pericoloso precedente nel quadro dei rapporti tra gli Stati parte e la Cpi, andando a compromettere non solo la credibilità dello Stato italiano, ma anche quella della Corte stessa. Quest’ultima, infatti, non disponendo di una forza esecutiva propria, fonda il proprio funzionamento sulla cooperazione degli Stati membri, quali attori che, aderendo al suo Statuto, si sono impegnati a far proprio l’obiettivo di combattere l’impunità per i più gravi crimini, anche ‘adottando misure a livello nazionale e rafforzando la cooperazione internazionale’ (preambolo Statuto). Il carente interesse dello Stato italiano ad avere un ruolo attivo nella lotta ai crimini internazionali è evidenziato del resto dalla mancata adozione di una legislazione nazionale coerente in materia e, in particolare, dalla perdurante mancanza nel nostro diritto penale del reato di crimini contro l’umanità.

 L’interferenza politica nel perseguimento della giustizia per crimini internazionali risulta, in conclusione, una minaccia sempre attuale e particolarmente insidiosa per la giustizia penale internazionale, specialmente in una fase come quella che stiamo vivendo in cui la Cpi, per la sua azione su molteplici fronti, risulta particolarmente esposta ad attacchi e strumentalizzazioni che ne minacciano la stessa sopravvivenza.

Paolo De Stefani, Carlotta Rossato, Università di Padova


[1] Vale la pena notare che tale dinamica rispecchia quanto avvenuto nel caso Abedini (il cittadino iraniano arrestato su mandato della giustizia americana, misura che ha presumibilmente motivato la carcerazione, in Iran, di Cecilia Sala). La normativa estradizionale vigente tra Italia e USA, infatti, non prevede espressamente l’ipotesi di arresto d’urgenza su iniziativa della polizia, in modo del tutto analogo a quanto prevede, come vedremo, la legge 237/2012 sulla cooperazione giudiziaria tra Italia e Cpi. Nel caso Abedini l’arresto d’urgenza non aveva suscitato dubbi procedurali.

[2] Art. 2 l. 237/2012 (Attribuzioni del Ministro della giustizia): c. 1. ‘I rapporti di cooperazione tra lo Stato italiano e la Corte penale internazionale sono curati in via esclusiva dal Ministro della giustizia, al quale compete di ricevere le richieste provenienti dalla Corte e di darvi seguito. Il Ministro della giustizia, ove ritenga che ne ricorra la necessità, concorda la propria azione con altri Ministri interessati, con altre istituzioni o con altri organi dello Stato.’

[3] Art. 4 l. 237/2012 (Modalità di esecuzione della cooperazione giudiziaria) c. 1. ‘Il Ministro della giustizia dà corso alle richieste formulate dalla Corte penale internazionale, trasmettendole al procuratore generale presso la corte d’appello di Roma perché vi dia esecuzione, ovvero perché, nei casi indicati dall’articolo 99, paragrafo 4, dello statuto, presti assistenza al Procuratore della Corte penale internazionale nello svolgimento dell’attività da eseguire nel territorio dello Stato.’

[4] Art. 11 l. 237/2012 (Applicazione della misura cautelare ai fini della consegna): 1. ‘Quando la richiesta della Corte penale internazionale ha per oggetto la consegna di una persona nei confronti della quale è stato emesso un mandato di arresto ai sensi dell’articolo 58 dello statuto ovvero una sentenza di condanna a pena detentiva, il procuratore generale presso la corte d’appello di Roma, ricevuti gli atti, chiede alla medesima corte d’appello l’applicazione della misura della custodia cautelare nei confronti della persona della quale è richiesta la consegna.’

[5] Art. 3 l. 237/2012 (Norme applicabili): c. 1. ‘In materia di consegna, di cooperazione e di esecuzione di pene si osservano, se non diversamente disposto dalla presente legge e dallo statuto, le norme contenute nel libro undicesimo, titoli II, III e IV, del codice di procedura penale.’; c. 2. ‘Per il compimento degli atti di cooperazione richiesti si applicano le norme del codice di procedura penale, fatta salva l’osservanza delle forme espressamente richieste dalla Corte penale internazionale che non siano contrarie ai principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano.’