Il ruolo delle fondazioni private: tra filantropia e declino dei diritti

Il ruolo delle fondazioni private: tra filantropia e declino dei diritti

L’Avv. Giuseppe Libutti dei Giuristi Democratici di Roma analizza l’importanza crescente delle fondazioni, che sempre più rischiano di farsi strumento di erosione dei diritti, anziché di loro implementazione

Giusto un mese fa, Chiara Brusini su Il fatto quotidiano rendeva uno spaccato efficace delle giustificazioni che il grande capitale utilizza per normalizzare la crescente concentrazione della ricchezza. In questa narrazione, il denaro accumulato non rappresenta un problema per la democrazia, ma una virtù: esso diventa la leva con cui finanziare università, ospedali, ricerca e persino progetti sociali nelle periferie urbane.

Si è così consolidato un sistema per cui sono le fondazioni filantropiche e non lo Stato a stabilire quali progetti sostenere nei quartieri più marginalizzati delle grandi città. In altre parole, la risposta ai bisogni collettivi non viene più garantita da politiche pubbliche, attraverso un’equa redistribuzione delle risorse fiscali, ma demandata alle scelte discrezionali di soggetti privati.

Lasciare che siano le fondazioni a decidere cosa finanziare significa rinunciare al principio fondamentale secondo cui i diritti sociali devono essere garantiti dallo Stato, non concessi dalla benevolenza dei ricchi. La scelta di finanziare un asilo piuttosto che un centro culturale, una borsa di studio piuttosto che un progetto sanitario, non risponde a priorità pubbliche definite democraticamente, ma alle agende –spesso reputazionali– di chi dispone del capitale.

Un altro nodo cruciale riguarda l’origine delle risorse. I patrimoni che alimentano queste fondazioni potrebbero derivare da attività speculative, dall’elusione fiscale o dallo sfruttamento di lavoro precario in catene globali del valore. In questo senso, la filantropia può funzionare come una sorta di lavaggio etico: restituisce una minima parte della ricchezza estratta, permettendo però ai grandi attori finanziari di presentarsi come benefattori.

Accettare che la filantropia sostituisca il ruolo delle tasse e delle politiche pubbliche significa piegarsi supinamente al paradigma liberista. In esso, la disuguaglianza non è un problema da correggere ma una condizione naturale del sistema, e il compito di “mitigarne” gli effetti viene delegato a chi ne trae vantaggio. È un ribaltamento concettuale: la redistribuzione non è più un diritto, ma un atto di grazia.

A rendere ancora più problematico questo modello è il fatto che le fondazioni, attraverso i progetti che finanziano, stabiliscono un canale privilegiato con le amministrazioni pubbliche. Di fatto, diventano interlocutori diretti delle istituzioni, sostituendosi non solo allo Stato ma anche ai cittadini nei processi decisionali. In questo modo si altera l’equilibrio democratico: le comunità locali non dialogano più con le istituzioni attraverso forme di rappresentanza collettiva, ma si trovano “mediate” da fondazioni private che assumono un ruolo para-istituzionale.

A ciò si aggiunga come la retorica della meritocrazia stia diventando un alibi per giustificare le disuguaglianze. Si racconta che chi riesce lo fa grazie al proprio talento e impegno, ma in realtà chi parte avvantaggiato ha sempre più possibilità di “dimostrare merito”, mentre chi vive condizioni difficili viene colpevolizzato per il proprio fallimento. È un meccanismo che sposta la responsabilità dal sistema all’individuo.

Abbiamo anche da noi importato il modello americano della filantropia privata, che non è una soluzione: trasforma i diritti in favori discrezionali, legati alla generosità di chi ha risorse, invece che a garanzie stabili e universali. È l’opposto della tradizione europea, che ha costruito il welfare proprio sul principio dell’universalismo: sanità, scuola, protezione sociale non come premi o donazioni, ma come diritti che spettano a tutti. Nel secondo dopoguerra ricostruzione, democrazia e diritti andavano di pari passo. Ci si è provato. È in corso un progressivo smantellamento di tutto questo sistema.

Difendere quella visione oggi è cruciale, non tanto per negare il valore dell’impegno personale, ma per impedire che diventi un alibi per smantellare i diritti e ridurli a privilegi selettivi.

Il combinato disposto di “welfare privato” e “retorica del merito” produce un effetto corrosivo sulla cittadinanza. I diritti diventano favori; l’accesso a servizi fondamentali dipende dall’arbitrio di pochi, non da un patto sociale fondato sull’uguaglianza. Le comunità delle periferie sono così trasformate in beneficiarie passive, mentre si riduce lo spazio per la mobilitazione collettiva e per rivendicare un welfare universale.

Se davvero si vuole ridurre le disuguaglianze, la strada non passa per la delega ai privati, ma per un rafforzamento della fiscalità progressiva e dei sistemi di welfare. Non la carità, ma la giustizia sociale deve guidare la redistribuzione della ricchezza. La sfida è riappropriarsi della dimensione pubblica delle politiche sociali, sottraendola alla logica della benevolenza e riportandola nell’alveo dei diritti.

Giuseppe Libutti