Per gli approfondimenti sui casi di violenza in carcere che sono stati investigati e per i quali è stato utilizzato il reato di tortura, proponiamo alcune note sui fatti sotto processo avvenuti nel carcere Lorusso e Cotugno, quartiere Le Vallette a Torino dalla fine 2017 all’inizio del 2019.
Dopo il caso di Santa Maria Capua Vetere di cui abbiamo parlato con l’Avv. Luigi Romano e quello di San Gimignano che ci ha spiegato l’Avv. Simonetta Crisci, abbiamo intervistato l’Avv. Simona Filippi del foro di Roma e membro dell’Associazione Antigone a proposito del processo in corso presso la sezione collegiale del Tribunale di Torino contro agenti penitenziari accusati del reato di tortura per le violenze esercitate in particolare nel Padiglione C dell’Istituto Penitenziario piemontese.
INTERVISTA ALL’ AVV. SIMONA FILIPPI
- Come è nata l’inchiesta riferita ai fatti di violenza avvenuti tra la fine del 2017 e l’inizio del 2019 nel carcere Lorusso e Cotugno di Torino?
Come spesso abbiamo registrato per i processi di questo tipo che si stanno celebrando in Italia, anche in questo caso la notizia di reato emerge per l’intervento di un soggetto terzo cioè non i detenuti né il personale penitenziario.
A far partire l’inchiesta è stato l’intervento del Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Torino, la dottoressa Monica Gallo, che entrata nel novembre 2017 in carcere, come è suo mandato, riceveva diverse segnalazioni di violenze esposte da detenuti che raccontavano di episodi con modalità analoghe all’interno dello stesso reparto, il Padiglione C del carcere Lorusso e Cotugno di Torino.
A fronte di tali ripetute segnalazioni la Garante, dopo alcuni tentativi non andati a buon fine di coinvolgere il direttore (circostanza questa che tra l’altro è il motivo per il quale il direttore è stato processato), ha fatto partecipe della situazione gli altri Garanti, quello regionale e quello nazionale, che in quel momento era il professor Mauro Palma. Sulla base di questo lavoro, essenziale altrimenti con molta probabilità il processo non si sarebbe mai celebrato, la dottoressa Gallo si è recata in Procura, sono stati aperti inizialmente una serie di fascicoli separati tra loro.
A questo punto la Procura si era allertata perché le notizie erano diverse ma sempre analoghe. Da qui è partita l’indagine. Si è poi arrivati all’apertura del processo nel 2023 purtroppo con tempi troppo lunghi perché siamo nel 2025 e sono già passati otto anni dai fatti.
- Parliamo degli episodi denunciati dalla Garante, su cui poi è stata avviato l’inchiesta e alla fine si è arrivati processo. Di cosa stiamo parlando? Chi sono le vittime e chi sono gli autori delle violenze?
Stiamo parlando di violenze che venivano adoperate, come raccontano i capi di imputazione, nei confronti di detenuti per reati di violenza sessuale. La sezione dove si sono verificate le violenze era ed è dedicata a questo tipo di detenuti, si tratta del Padiglione C del carcere Lorusso e Cotugno. Come sappiamo nelle carceri italiane, ma in generale nell’organizzazione di tutte le carceri, i detenuti che sono accusati di questo tipo di reati vengono separati dal resto della popolazione penitenziaria perché i reati loro imputati sono considerati di particolare gravità e questi detenuti possono anche essere vittime di violenza da parte di altri ristretti. In questo caso le vittime sono esclusivamente questo tipo di figure.
Per quanto riguarda gli autori dei reati stiamo parlando di agenti penitenziari.
In particolare, come è emerso già dalla fase delle indagini ma soprattutto nel corso del dibattimento, si evidenzia il ruolo sempre costante ricoperto dall’ispettore di quel reparto che in qualche modo risultava essere il referente più importante per questo tipo di azioni.
Le vittime prevalentemente sono stranieri. Questo è un elemento che torna spesso nei processi per tortura all’interno delle carceri. Si tratta di soggetti più vulnerabili rispetto ai detenuti italiani che ovviamente hanno più collegamenti con il territorio.
Per tornare agli episodi al centro del processo le vittime aggredite sono quasi sempre stranieri. Penso per esempio in particolare a un detenuto, che ha fatto molta fatica nel rendere testimonianza, che è stato vittima di schiaffi, pugni, costretto a rimanere in piedi nel corridoio della sezione con la faccia rivolta verso il muro per circa quaranta minuti per poi essere portato in un’altra stanza, colpito violentemente con schiaffi al volto nonché vittima di perquisizioni arbitrarie e vessatorie all’interno della propria cella. Oppure un altro detenuto, anche in questo caso sempre straniero, trasferito da una sezione ordinaria al Padiglione C e nel trasferimento colpito con violenza, fatto cadere a terra uno o due volte, colpito nuovamente con calci alle gambe, sbattuto contro il muro, poi uno degli agenti si è sfilato la cinghia e lo ha colpito con violenza sul braccio. Ed ancora un altro detenuto che al momento dell’ingresso all’interno del carcere, mentre doveva essere condotto nella sua sezione, è stato colpito violentemente con reiterati pugni e schiaffi al capo, al volto e colpito con numerosi calci alle gambe, poi uno degli agenti gli ha schiacciato con forza il piede con il tallone, provocandogli un dolore molto forte. In questo caso, mentre lo colpivano veniva offeso, gli dicevano “per quello che tu hai fatto, devi morire qua”. Stiamo parlando di un tipo di condotta che torna spesso nel processo visto in diverse occasioni è emerso che i detenuti venivano costretti a ricordare ad alta voce davanti ad altri agenti o davanti ad altri detenuti quello che avrebbero fatto.
- Sulla base di quale reato si è mossa la Procura all’inizio di tutta la storia?
Il reato di tortura è stato introdotto nel 2017 e i fatti si sono svolti proprio a partire dal anno in cui è entrata in vigore la legge. Per cui la Procura ha potuto procedere alla contestazione del reato di tortura per una parte dei 21 agenti inquisiti.
Ci sono state anche delle ordinanze di misura cautelare all’inizio e alcuni agenti sono stati sottoposti a misura. Il che ha creato un clima di forte tensione intorno all’iter giudiziario.
- Come è si è sviluppato l’iter processuale?
Il processo si è aperto nel 2023. Come dicevo l’avvio ha avuto tempi lunghissimi. In udienza preliminare alcuni imputati hanno scelto il rito abbreviato che in questo momento si è definitivamente concluso con la sentenza della Cassazione del luglio di quest’anno con l’assoluzione per il Direttore, l’allora comandante e un agente che erano accusati tra l’altro di omessa denuncia e favoreggiamento.
Il processo nei confronti del grosso degli imputati si sta celebrando con un rito ordinario davanti alla sezione collegiale del Tribunale di Torino, composta dai giudici Paolo Gallo, Elena Ricci e Giulia Maccari. Nella requisitoria svolta poco tempo fa il Pm Francesco Pelosi ha chiesto condanne da 1 a 6 anni per 14 agenti penitenziari tra cui 7 imputati del reato di tortura. Il processo si dovrebbe concludere presumibilmente tra dicembre 2025 e gennaio 2026.
- Nel processo si sta confermando il clima di tensione molto forte che ha accompagnato le violenze commesse nel Padiglione C. Possiamo parlare di questo aspetto non secondario?
Oltre alle singole condotte, di cui ho parlato prima in maniera più o meno sommaria, tutti gli interlocutori venuti a testimoniare davanti ai giudici del collegio di Torino hanno confermato il pesante clima di tensione che si viveva in maniera particolare in quel periodo storico all’interno di quel reparto. Educatori, insegnanti che venivano da scuole esterne, il prete, ovviamente i Garanti, tutti questi testimoni sono stati fondamentali e hanno descritto in maniera dettagliata il clima di tensione che si era creato. Era una paura quotidiana molto pesante che i detenuti trasmettevano agli interlocutori che si trovavano davanti. Faccio un esempio: il professore che insegnava e veniva da una scuola esterna nel corso del processo ha raccontato come gli sia stato impedito di accedere alla sezione perché gli agenti in quel momento stavano ponendo in essere un’azione di violenza.
Altro personale penitenziario è stato intimorito da alcuni agenti nel momento in cui veniva avanzata qualche rimostranza, tanto è vero che la Garante comunale e il Garante nazionale hanno trovato conferma di quello che avevano già appreso parlando con alcuni detenuti anche dal personale non di polizia penitenziaria che operava in quel momento all’interno del carcere.
- Qual’è la caratteristica di questa vicenda all’interno dei casi di violenza nelle carceri e di che paura possiamo parlare per le vittime?
Sulla base dei processi che ci sono stati da quando è stato introdotto il reato di tortura, quindi neanche 10 anni, possiamo dire, in maniera veramente sommaria, basandoci sui processi che stiamo seguendo come Associazione Antigone, che la dinamica dell’utilizzo della violenza si può classificare in tre macro aree.
Una è quella di una violenza sistemica e organizzata che può vedere coinvolti anche i vertici apicali dell’amministrazione e cito su questo fronte il processo che si sta celebrando per i fatti di Santa Maria Capovetere.
La seconda è quella che riguarda episodi di violenza singoli e isolati che vedono coinvolta solitamente una squadretta che aggredisce violentemente un detenuto. Si tratta di un episodio appunto isolato. In questi casi solitamente la vittima, come già detto prima, è un detenuto straniero. Cito come esempi il processo per cui c’è stata confermata anche in Corte d’appello la condanna per il reato di tortura per un episodio avvenuto nel carcere di San Gimignano nel 2018 o il caso in cui è stato contestato il reato di tortura avvenuto a Reggio Emilia nel 2023 e che il giudice ha derubricato in un abuso dei mezzi di coercizione da parte degli agenti e su cui ancora si deve svolgere l’appello.
L’ultima grande macro area è quella di ripetuti episodi di violenza che avvengono per colpire determinati gruppi di detenuti che hanno commesso dei reati che sono, come dire, considerati particolarmente infamanti all’interno del carcere. Tanto è vero che, come dicevo, ci sono apposite sezioni che contengono questo tipo di detenuti. Il caso di quello che è avvenuto a Torino tra novembre 2017 e inizio 2019 è un processo che riguarda questo ultimo gruppo di violenze. I detenuti colpiti, le vittime, sono tutte quante di quel reparto, tutte quante autori di quel tipo di reati. Alle condotte contestate e poi attestate nel corso del dibattimento, oltre alla violenza che poteva essere più o meno grave, si accompagnava il voler umiliare la persona la quale doveva ripetere a voce alta, come è contestato nel capo di imputazione: “sono un pezzo di merda … perché ho commesso quel reato”. Un utilizzo della violenza da parte degli agenti con un senso di voler punire ulteriormente chi ha commesso quel tipo di reati. Questo discorso ben emerge nel processo.
La paura rispetto alla testimonianza resa dalle vittime è un tema ricorrente che abbraccia sempre questi processi. A Torino il processo ha visto un diffondersi continuo nelle udienze di “non ricordo”, “non so riconoscere” oltre alle evidenti difficoltà nella ricostruzione dei fatti stessi.
Il tema della paura, che da un punto di vista normativo rispetto ad altre vittime di violenze, penso per esempio alle donne di cui tanto si parla in questo momento, è un aspetto giustamente tenuto in conto, non lo è per quanto riguarda i processi di tortura. Manca ancora l’attenzione su quanto per una vittima sia una questione molto complicata ricordare e raccontare la condotta di tortura che ha subito. Inoltre va tenuto ben presente che per quanto riguarda questo tipo di processi, la vittima, in molti casi, continua ad essere detenuta.




