A cura dell’Avv. Aurora d’Agostino, co-presidente dell’Associazione e consulente legale in materia di violenza sulle donne
Sono state depositate le motivazioni della sentenza che ha comminato l’ergastolo a Filippo Turetta per l’uccisione di Giulia Cecchettin; un delitto voluto, premeditato e poi oggetto anche di malriusciti tentativi di occultamento.
L’attenzione generale è stata appuntata sul mancato riconoscimento da parte della Corte d’Assise dell’aggravante della “crudeltà”, che è stata sintetizzata dalla stampa in alcune asserzioni, estrapolate dalla sentenza, che indubbiamente cozzano con il sentire comune, per cui le 75 ferite da arma da taglio riscontrate sul corpo di Giulia Cecchettin sarebbero espressione di “imperizia” dell’autore del reato. Ora, al di là della terminologia forse poco felice utilizzata dagli estensori della decisione, che ritengono “tale dinamica, …certamente efferata…conseguenza dell’inesperienza e dell’inabilità” del Turetta, è vero che la norma e la giurisprudenza richiedono un quid pluris rispetto alla brutalità in sé del delitto, che è frequente nelle uccisioni con arma da taglio, e cioè quella volontà di infliggere “scempio o sofferenza aggiuntiva” alla vittima.
Non è questo il profilo che colpisce di più, a mio personale avviso, nella decisione (149 pagine, di cui 115 dedicate ad una meticolosa e ragionata ricostruzione dei fatti e trascrizione di chat e messaggistica depositata in atti) quanto l’esclusione del delitto di cui all’art. 612 bis c.p. e la sua motivazione. Il quadro che emerge indiscutibilmente dalla lettura della decisione e dalle risultanze processuali richiamate (testimoniali e documentali) è quella di un’ossessionante riproposizione ( ininterrotta nonostante i tentativi di Giulia) , da parte dell’imputato di se stesso, della sua presenza, della sua continua richiesta di attenzione, di informazione, di controllo, di autorità su quanto lei poteva o non poteva fare di se stessa, oltre che del rapporto con l’ex.
Il Turetta con una cadenza spaventosa non solo pretendeva di sapere dove Giulia si trovasse, con chi, di cosa avesse parlato, ma anche di decidere chi potesse frequentare e chi no, accusandola di fargli del male deliberatamente se si ostinava a frequentare amiche a lui non gradite (e questo anche dopo che il rapporto si era definitivamente concluso, per volontà della ragazza) ma imponeva la sua presenza indipendentemente (e contro) la volontà di lei. Nella stessa decisione vengono riportati racconti di amiche, della sorella, che ne davano atto, riportando episodi in cui Giulia manifestava l’esasperazione a cui tale invadenza la portava. Eppure queste condotte e questi episodi non sono stati ritenuti sufficienti a configurare il reato di cui all’art 612 bis c.p.-atti persecutori- mancando, ad avviso della Corte l’elemento soggettivo in capo alla persona offesa, ovvero la conseguenza delle condotte “un grave e perdurante stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona …legata da relazione affettiva ovvero da costringere …ad alterare le proprie abitudini di vita”.
In altre parole, Turetta non è uno stalker perché Giulia Cecchettin non è una vittima doc.: non aveva o non manifestava abbastanza paura dell’uomo che le si imponeva ovunque ed in ogni modo, che la assillava alternando modi imperativi e minacce non troppo velate (come quelle formulate nel caso si fosse laureata senza aspettare che potesse farlo anche lui) a tecniche manipolatorie classiche (non mangio, non bevo, dimagrisco e penso di suicidarmi); non piangeva abbastanza (ma di una sua crisi di pianto che aveva costretto le amiche a cercare di evitarle l’ulteriore incontro col Turetta viene dato atto in sentenza). Ma certamente era costretta continuamente a modificare le proprie scelte di vita, mediante minacce e manipolazione, mediante assillo continuo (se non lo incontro non la smette più) sulla scelta fondamentale che interessa, nel caso: quella di non voler più stare insieme al Turetta, che invece si trovava costretta a frequentare per evitare il peggio, per sé e (temeva, essendo un essere profondamente umano) per lui.
Questo mi pare di leggere, con dovizia di particolari, nella decisione, e questo mi pare debba destare seria preoccupazione, perché muove da una lettura restrittiva del disposto dell’art 612 bis c.p., pretendendo che le donne ossessionate da uomini possessivi e violenti rispondano a quei requisiti di vittima disperata, piangente e remissiva che Giulia Cecchettin (giustamente e legittimamente) non era o non manifestava.