Zehra Doğan

E’ una giornalista, artista, fumettista e sceneggiatrice, ma di sé dice “mi interessano tutte le tecniche artistiche e di volta in volta scelgo il mezzo più consono al momento e alle mie capacità”. Si è laureata all’ Accademia delle Belle Arti di Dicle. Attivista della causa curda, , fondatrice e direttrice di Jinha (donna, in curdo), un’agenzia di stampa femminista, composta da sole donne, chiusa, come altre testate giornalistiche, nel corso delle purghe post “tentato golpe”.

La vicenda processuale - Di cosa è stata accusata
Zehra Doğan viene arrestata il 21 luglio 2016. Accusata di propaganda terroristica (nonché di affiliazione al PKK) per aver pubblicato via twitter un disegno in cui rappresentava la distruzione di Nusaybin, piccola città curda bombardata ed invasa dall’esercito turco, un’opera che ebbe diffusione virale e fu definita “la Guernica curda”.
Nonostante il mancato riconoscimento delle accuse più gravi, è stata condannata nel febbraio 2017 alla pena di due anni, 9 mesi e 22 giorni, che ha scontato nelle carceri di Mardin, Diyarbadir e Tora.
Viene scarcerata il 24 febbraio 2019 e ripara in Europa, dove ora vive in autoesilio.

Citazioni
“Nessun artista volta le spalle alla società; un pittore deve usare il suo pennello come arma contro gli oppressori. Nemmeno i soldati nazisti accusarono Picasso a causa dei suoi dipinti: io invece sono a giudizio per le mie opere”
“Avremo anche buone giornate. E conservo in me questa convinzione, anche oggi”.
“La libertà per me non è 'fare quello che vuoi', ma essere in grado di dire 'no', essere sé stessi. E questo, indipendentemente dalle condizioni, in prigione o nel bel mezzo della guerra”.
“Mi sono stati dati due anni e 10 mesi [di prigione] solo perché ho dipinto bandiere turche su edifici distrutti. Tuttavia, (il governo turco) è la causa. L'ho solo dipinto" ha detto subito dopo la sua sentenza di condanna.
“Nel primo carcere, a Mardin, mi avevano permesso di dipingere; invece nel secondo centro di detenzione, a Diyarbakir, niente. In ogni caso ho dipinto, sulle magliette, sui giornali oppure sulla carta igienica. Ho utilizzato i residui del cibo, i miei capelli ma anche il mio sangue mestruale. Questa, per me, è una forma di resistenza contro questa cultura maschilista che maledice la donna da circa cinquemila anni. Penso di aver creato un buco nel muro della censura e della violenza che ha paura anche della pittura. Inoltre, le mie compagne di cella mi hanno aiutata a procurarmi i materiali, a nascondere i dipinti e a farli uscire fuori dal carcere, cosa che era vietata. Quindi si può parlare di una resistenza femminile collettiva che abbiamo organizzato dentro la prigione” da una sua intervista pubblicata nel 2021.

Riconoscimenti e mostre
Ha partecipato alla Biennale di Berlino (2020) e le sue opere sono state esposte al PAC (Milano, 2021) Peace Forum (Basilea, Svizzera, 2020), al Nassauischer Kunstverein (Wiesbaden, 2020), al Museo di Santa Giulia (Brescia, 2019), al Drawing Center (New York, 2019), alla Tate Modern (Londra, 2019), all’Opéra de Rennes (Francia, 2019), al Festival des Autres Mondes (Pays de Morlaix, Francia, 2018) e al Douarnenez Film Festival (Francia, 2017). Recentemente le sue opere sono state esposte anche a Brescia
A lei Banksy dedica nel 2018 il suo monumentale murales sul Bovery Wall di New York.

Le sue opere
Autrice di “Prigione n. 5” (Ed. Becco Giallo), graphic novel realizzata nel corso della sua detenzione. Ha fatto uscire clandestinamente le tavole dal carcere dove era rinchiusa, la Prigione n. 5 a Diyarbakir. A realizzato i suoi disegni grazie alla collaborazione di chi le scriveva, sempre con carta Kraft (quella che si usa per i sacchetti) e lasciando rigorosamente vuoto il retro per consentirle di utilizzarlo. Sono 128 pagine di disegni realizzati con materiali di fortuna (sangue, avanzi di cibo, sughi, melograno, caffè, curcuma).
Nel maggio 2019, dopo la scarcerazione e l’autoesilio, la Tate Gallery di Londra ospita una sua performance
A questo link la performance.