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Il licenziamento del fittizio datore di lavoro torna ad essere «giuridicamente inesistente», ed il contrasto dell'interposizione e/o appalto illecito e somministrazione irregolare più agevole. L’art. 80-bis, Legge n. 77 del 17.7.2020, «Interpretazione autentica del comma terzo, art. 38 D.Lgs. 81/2015»
Redazione 22 agosto 2020 21:19
L'Avv. Pierluigi Panici illustra l'importante novità normativa in tema di licenziamento del fittizio datore di lavoro

Per decenni, un consolidato orientamento della Corte di Cassazione ha affermato questo principio di diritto (oltreché di buon senso): il licenziamento intimato non dal reale datore di lavoro –per illecita  interposizione, appalto illegittimo e somministrazione irregolare– è inidoneo a interrompere il rapporto di lavoro perché “a non domino”. La conseguenza, alternativamente, era dunque la prosecuzione del rapporto di lavoro con la “perpetuatio obligationis”, ossia la radicale nullità e/o inefficacia del recesso per inesistenza del potere risolutivo in capo al datore di lavoro fittizio.

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con la sentenza 26 ottobre 2006 n. 22910 ha ribadito che anche dopo l’abrogazione della legge 1369/60 (divieto di interposizione nel rapporto di lavoro) per effetto del D.Lgs. 276/2003, è principio fondamentale del nostro ordinamento secondo cui deve essere ritenuto effettivo datore di lavoro chi in concreto utilizza le prestazioni lavorative del dipendente (salve le ipotesi eccezionali di appalto lecito e somministrazione regolare).

Come recentemente ribadito da Cass. n. 29889/2019:

«… La dissociazione tra datore di lavoro ed effettivo utilizzatore della prestazione é stata storicamente contenuta dal legislatore e consentita solamente per ipotesi tipizzate al fine di trovare un contemperamento tra esigenze di flessibilità dell’organizzazione imprenditoriale e garanzie di tutela dei lavoratori. In particolare, il D.Lgs. n. 276 del 2003 non ha eliminato la figura della somministrazione irregolare di manodopera, già vietata dalla L. n. 1369 del 1960, art. 1, in armonia con la permanenza di principi di rango costituzionale volti a collegare al rapporto di lavoro subordinato e soltanto ad esso una serie di posizioni di vantaggio (Cass., S.U., n. 22910 del 2006, che si riferisce, in motivazione, appunto alla disciplina introdotta nel 2003). …

Il criterio discretivo per individuare una legittima dissociazione tra formale datore di lavoro e sostanziale utilizzatore delle prestazioni lavorative è, dunque, la riconduzione della fattispecie concreta alle ipotesi normativamente tipizzate. È onere del datore di lavoro, sia quello formale che sostanziale, dimostrare la sussistenza di una genuina intermediazione di manodopera (che consista in un contratto di appalto di servizio ovvero in un contratto di somministrazione)…»

Questa la conclusione della Suprema Corte:

«La riscontrata assenza di accordi tra le società ricorrenti, effettive utilizzatrici ed alle prestazioni dei lavoratori, e le società intermediarie che hanno proceduto alle assunzioni, ai fini dell’affidamento della gestione di particolari settori di attività interni al ciclo produttivo si risolve nella conferma del generale principio di individuazione del datore di lavoro nel soggetto che utilizza la prestazione lavorativa in base alla norma inderogabile dettata dall’art. 2094 c.c. che si riferisce alla collaborazione «nell’impresa» alle dipendenze dell’«imprenditore», tipicamente individuato in colui che organizza i fattori della produzione…».

Quanto alle conseguenze della illecita interposizione –per inesistenza di un contratto di appalto o di somministrazione– il tradizionale e consolidato orientamento della Corte di Cassazione è chiaro: «…nella interposizione di manodopera vietata, il rapporto di lavoro si instaura effettivamente con l’interponente, sicché il licenziamento del lavoratore intimato dal datore apparente o interposto non è solo illegittimo, ma giuridicamente inesistente, con conseguente impossibilità di ratifica da parte dell’interponente, trattandosi di atto proveniente da soggetto estraneo al rapporto lavorativo…» (così Cass. n. 23684 del 23.11.'10).

E ancora: «… Nell’ipotesi di interposizione fittizia nel rapporto di lavoro, il potere di recesso deve essere esercitato dal contraente reale e non già da quello fittizio.

Conseguentemente, è inefficace il recesso intimato dal soggetto interposto (cfr. Cass. n. 6926 del 2000 e anche n. 5995 del 1998 e S.U. 21.3.1997, n. 2517).

Ne consegue che il licenziamento proveniente da un soggetto diverso dal titolare del relativo potere è inefficace perché «a non domino»».

Ancora recentemente Cass. 22487/19 conferma che «in caso di interposizione nelle prestazioni di lavoro, l’interponente, effettivo utilizzatore delle prestazioni lavorative, si sostituisce all’interposto nel rapporto di lavoro, cosicché l’eventuale licenziamento intimato da quest’ultimo è inesistente giuridicamente…».

 

L’art. 27 D.Lgs. 276/20003, ora abrogato e sostituito dall’art. 38, D.Lgs. 81/2015:

la giurisprudenza “additiva”.

Come è noto nella ipotesi di appalto illecito o somministrazione irregolare l’art. 27 D.Lgs. 276/2003 –ora sostituito dall’art. 38 D.Lgs. 81/2015 per il quale è intervenuta la “norma di interpretazione autentica” che non poteva riguardare una norma abrogata ma solo quella sostitutiva di essa– prevedeva al comma 1, nel caso di somministrazione irregolare (ma anche di appalto illecito per esplicito richiamo ad essa dell’art. 29 D.Lgs. 276/2003) che il lavoratore «può chiedere, anche soltanto nei confronti dell’utilizzatore, la costituzione di un rapporto alle dipendenze di quest’ultimo…»; al successivo comma 2 è altresì previsto che «tutti gli atti compiuti o ricevuti dal somministratore nella costituzione o nella gestione del rapporto…si intendono come compiuti o ricevuti dal soggetto che ha effettivamente utilizzato la prestazione…» Le stesse previsioni sono ora riportate nell’art. 38, ai commi 2 e 3, D.Lgs. 81/2015.

L'azione di “costituzione” del rapporto è stata correttamente ritenuta di “accertamento” dalla Corte di Cassazione che già con la sentenza n. 17540/2014 del 22 ottobre –confermata da altre successive– così precisava:

«… È pur vero che l’art. 21 ult. co. D.Lgs. n. 276/2003 prevede espressamente la sanzione della nullità in caso di difetto di forma scritta del contratto di somministrazione e che il successivo art. 27 co. 1o stabilisce che, quando la somministrazione di lavoro sia avvenuta al di fuori dei limiti e delle condizioni di cui ai precedenti artt. 20 e 21 co. 1o lettere a), b), c) ed e), il lavoratore può chiedere in via giudiziaria la costituzione d’un rapporto di lavoro alle dipendenze dell’utilizzatore con effetto dall’inizio della somministrazione.

Nondimeno, la sanzione della nullità …… è nella logica del sistema …… D’altro canto, se non si versasse in ipotesi di nullità…… non avrebbe senso il consentire al lavoratore l’azione per ottenere la costituzione del rapporto ab origine alle dipendenze dell’utilizzatore.

Né tragga in inganno la terminologia adottata dal legislatore che, nel parlare di «costituzione del rapporto» (anziché di suo mero accertamento) sembrerebbe evocare un’azione costituiva e, quindi, un’ipotesi di mera annullabilità: in realtà il prevedere espressamente che tale azione può essere esperita anche soltanto nei confronti dell’utilizzatore, esclude in radice che quella prevista sia un’ipotesi di annullabilità anziché di nullità, non potendo la prima essere pronunciata se non in contraddittorio di tutte le parti del contratto da annullare».

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A partire dal 2016, con la sentenza 17091 del 12.08.2016 poi confermata da altre successive (ad esempio la n. 2303/18), la Corte di Cassazione ha sostanzialmente “integrato” la previsione  normativa suddetta aggiungendo agli atti “come compiuti”, e dunque riferibili al reale datore di lavoro, anche il licenziamento.

Sembra abbastanza evidente che il legislatore sapesse bene cosa regolava con la norma: e se ha previsto come imputabili al datore reale gli atti di quello fittizio di “costituzione del rapporto” nonché quelli di “gestione” dello stesso e non la risoluzione, la interpretazione che include il recesso è una inammissibile forzatura “additiva e/o integrativa” della norma stessa. Forzatura che ha avuto notevoli riflessi sulla azione di accertamento della illecita interposizione ovvero di appalto illegittimo e somministrazione irregolare, trasformandola in una complicata corsa ad ostacoli per il lavoratore.

Infatti, la riferibilità, a tutti gli effetti, del licenziamento al reale datore comporta per il lavoratore:

  1. a) brevi termini decadenziali di impugnativa del licenziamento, quando il lavoratore è ancora nella attesa di un richiamo in azienda da chi subentra nell’appalto, o dell’invio ad altro utilizzatore dalla agenzia di somministrazione ;
  2. b) la possibilità del reale datore di far valere la legittimità del recesso motivato da quello fittizio: una recente – ed estrema – sentenza della Corte di appello di Roma, la n. 1079/2020, ha ritenuto addirittura inammissibile l’accertamento dell’illecito appalto nella azione di impugnativa del licenziamento – pure tempestivo – anche perché il lavoratore “…non adduce altra e diversa ragione di legittimità dell’avvenuta estromissione aziendale” oltre alla sua nullità/inefficacia perché intimato non dall’effettivo datore;
  3. c) difficoltà processuali e complicazioni abnormi. Si pensi alla ordinaria azione di accertamento proposta dal lavoratore in costanza di rapporto. Intervenuto il licenziamento – reazione quasi automatica alla azione giudiziaria – cosa accade?

Il lavoratore deve necessariamente impugnarlo e proporre la relativa azione giudiziaria nei termini decadenziali.

Ma è pregiudiziale l’accertamento di chi sia il reale datore di lavoro e i processi, regolati da riti diversi (quello ordinario, per l’accertamento della interposizione e illecito appalto o irregolare somministrazione; quello c.d. Fornero, per il licenziamento) non possono essere riuniti: dunque il giudizio di licenziamento deve essere necessariamente sospeso (ex art. 295 c.p.c) sino alla sentenza definitiva che stabilisca chi è il reale datore! (e quindi  per molti anni).

A ciò si aggiungono –nella realtà concreta ben nota agli avvocati– le ripetute conciliazioni, ovviamente nelle sedi “protette” che vengono proposte ai lavoratori per “mantenere” il posto di lavoro a fronte dei licenziamenti dei vari soggetti intermediari che si alternano nell’appalto, e che vedono sempre l’intervento dell’effettivo utilizzatore, e/o appaltante che sempre  richiede la rinuncia a far valere l’illecita interposizione e/o appalto e somministrazione ed in ogni caso ad ogni diritto, anche nei suoi confronti;

  1. d) infine la mancata reintegrazione nell’ipotesi di cui ai commi 5 e 6 dell’art. 18 l. 300/70 e il danno non risarcibile oltre le 12 mensilità, importo massimo previsto dalla norma stesso nella ipotesi di licenziamento ingiustificato di cui al comma 4º; per gli assunti dopo il 7 marzo 2015 il licenziamento ingiustificato a seguito di appalto illecito e/o somministrazione irregolare, comporta la mera attribuzione di una (modesta) indennità risarcitoria e mai il ripristino del rapporto e/o reintegrazione nel posto di lavoro.

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Ecco dunque la “volontà del legislatore” con la norma di “interpretazione autentica” (approvata con la Legge n. 77 del 17.7.2020 di conversione del c.d. “decreto rilancio, n. 34 del 19.5.2020).

Essa è molto chiara:

«… Il secondo periodo del comma 3, dell’art. 38 del decreto legislativo 15 giugno 2015 n. 81, ai sensi del quale tutti gli atti compiuti o ricevuti dal somministratore nella costituzione o nella gestione del rapporto …… si intendono come compiuti o ricevuti dal soggetto che ha effettivamente utilizzato la prestazione, si interpreta nel senso che tra gli atti di costituzione e di gestione del rapporto di lavoro non è compreso il licenziamento …».

Dunque: è corretto l’orientamento pluridecennale della Corte di Cassazione che ritiene il licenziamento intimato non dal reale datore di lavoro «inesistente giuridicamente» e torna ad essere più agevole per i lavoratori contrastare la illecita interposizione nelle prestazioni di lavoro a fronte del dilagare degli appalti endoaziendali e delle esternalizzazioni; fenomeno diventato una vera e propria emergenza sociale ed economica ma anche democratica: infatti attraverso gli appalti le organizzazioni criminali si infiltrano nell’economia, inquinandola con i massicci capitali provenienti da traffico di droga ed estorsioni (e contro di loro non c’è partita per gli imprenditori che operano nella legalità, nella acquisizione degli appalti: i criminali dispongono di enormi capitali che “ripuliscono” con gli appalti al massimo ribasso); dilaga anche la corruzione, alimentata dalla parte peggiore della classe politica e imprenditoriale del Paese.

 

Le conseguenze sull'inesistenza giuridica del licenziamento.

È bene precisare che il recesso inesistente, ovvero affetto da nullità e/o inefficace perché “a non domino”, non può mai comportare la risoluzione del contratto di lavoro, con le conseguenze della “perpetuatio obbligationis” (e che la relativa azione è imprescrittibile ex art. 1422 c.c., salvo i diritti conseguenziali per i quali opera la specifica prescrizione ordinaria).

Ai sensi degli artt. 1453 e 2058 c.c. la parte adempiente (ossia il lavoratore) può, a sua scelta, chiedere l’adempimento (e la reintegrazione in forma specifica) o la risoluzione del rapporto, «salvo in ogni caso» il risarcimento del danno.

Il lavoratore ha pertanto diritto all’accertamento della persistenza del rapporto di lavoro ed al suo ripristino oltre al pagamento delle ordinarie retribuzioni dal recesso: ma a titolo di danno o di adempimento?

Risulta giuridicamente infondata la tesi secondo cui il lavoratore ha diritto a percepire la retribuzione solo se ha prestato di fatto la attività lavorativa; anche se la mancata prestazione è di fatto imputabile al datore di lavoro inadempiente, secondo tale orientamento spetta il risarcimento danni (pari alle retribuzioni perdute e per tutto il periodo in cui dura la disoccupazione, detratto l’“aliunde perceptum” o “percipiendum”).

Infatti il diritto alla retribuzione si fonda sulla persistenza giuridica del rapporto e non sul fatto di lavorare.

Come osserva acutamente il Tribunale di Roma nella sentenza del 2.12.'14:

  1. dall’art. 2094 c.c. emerge chiaramente come nel rapporto di lavoro siano le reciproche obbligazioni (di collaborare nell’impresa e di retribuire) a stare in sinallagma, come peraltro nella totalità dei cd. contratti a prestazioni corrispettive; e con le prestazioni, che costituiscono l’oggetto dell’obbligazione del prestatore e non il fatto costitutivo del suo diritto al corrispettivo, che è costituito dal contratto di lavoro;
  2. di ciò è riprova l’art. 1460 c.c. che consente, e col limite della buona fede, alla parte alla quale non sia offerta la prestazione che le spetta di non offrire la propria, con ciò rendendo evidente come persino l’inadempimento colpevole di una parte non impedisce al diritto corrispettivo di detta parte di sorgere, ma consente solo, e nei limiti della buona fede, alla controparte di autotutelarsi sospendendo il proprio adempimento;
  3. dall’art. 1173 c.c. (che prevede che le obbligazioni possono sorgere da contratto, da fatto illecito o da fatti idonee a produrle secondo l’ordinamento giuridico) risulta che le obbligazioni da fatto lecito nel nostro ordinamento sono tipiche; dal che deriva che il fatto che nel nostro ordinamento il diritto alla retribuzione sia un diritto da fatto lecito anziché da contratto dovrebbe risultare esplicitamente; ed invece è escluso dall’art. 2094 c.c.;
  4. nel nostro ordinamento le conseguenze generali dell’inadempimento si radicano nell’art. 1453 c.c., che prevede che nei contratti sinallagmatici se una parte non adempie alla propria obbligazione l’altra ha comunque azione di adempimento, e semmai, in aggiunta, azione risarcitoria dell’eventuale danno subito; e non nella disciplina della “mora credendi”, che regola solo le specifiche conseguenze dannose di tale mora.

 

                                                                                                          Avv. Pier Luigi Panici