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Lo smantellamento del diritto e del processo del lavoro - Roberto Lamacchia
Redazione 15 settembre 2003 09:05
Roberto Lamacchia ripercorre la storia del processo del lavoro e analizza le ultime riforme, che modificano strutturalmente il rapporto di lavoro e riducono la tutela giudiziaria e sindacale del lavoratore

Torino, 12 agosto 2003

L'andamento della questione della tutela dei diritti, sia sotto l'aspetto sostanziale che sotto quello processuale, nel campo del diritto del lavoro, è emblematico per dimostrare la rilevanza che i rapporti di forza hanno nel determinare, nella società, la legislazione e la sua concreta applicazione.
E' noto come la materia giuslavoristica sia stata considerata speciale sin dalla L. n. 295 del 1893 che introduceva Collegi dei Probi Viri per la risoluzione di controversie nel settore industriale; analogamente, nel settore dell'impiego privato, vennero introdotte Commissioni Arbitrali destinate a decidere le controversie di valore limitato o, sull'accordo delle parti, senza alcun limite di valore.
Succedette, poi, il R.D. 26/2/28 n. 471 che soppresse i Collegi dei Probi Viri e le Commissioni Arbitrali, prevedendo un procedimento assai semplificato rispetto al rito ordinario, nel quale era prevista la presenza di esperti a fianco del Giudice e la possibilità per questo di decidere immediatamente la causa subito dopo la fase preliminare ed il tentativo di conciliazione.
Si trattava, dunque, di un processo assai simile a quello introdotto dalla L. 11/8/73 n. 533, oggi vigente, essendo le sue caratteristiche salienti quelle della concentrazione, dell'obbligo di esposizione immediata delle ragioni delle parti, della oralità e della possibilità per il Giudice di disporre d'ufficio mezzi istruttori necessari per la decisione.
Purtroppo, quel rito, figlio del rilievo sociale che le questioni del lavoro assumevano nella concezione corporativistica dello Stato, venne sostanzialmente disapplicato per volontà di magistrati ed avvocati che preferivano restare ancorati a concetti di processo tradizionale, in cui le udienze si moltiplicavano ed il processo era eminentemente scritto.
Il sostanziale fallimento di quel rito, unitamente al prevalere della componente più prettamente corporativa, portò all'elaborazione, nel nuovo codice di procedura civile del 1942, di un processo del lavoro nel quale venivano esaltate le prerogative delle associazioni sindacali, venivano soppressi gli esperti in ausilio dei giudici ed il rito veniva assimilato in buona parte al rito ordinario, mediante l'introduzione della domanda con atto di citazione e soppressione della fase preliminare dell'udienza di comparizione.
La caduta del fascismo produsse, ovviamente, l'immediata soppressione dell'ordinamento corporativo con il conseguente venir meno di tutte quelle norme che attribuivano alle associazioni corporative compiti di conciliazione nelle controversie individuali di lavoro.
Negli anni successivi alla caduta del fascismo, vi furono momenti di estrema tensione sociale nei quali la netta contrapposizione delle parti ed il non prevalere dell'una sull'altra, portò ad una situazione di stallo.
Dopo la sconfitta del Fronte Popolare, e l'inizio del regime democristiano, l'Italia visse un periodo di incapacità delle classi lavoratrici di far valere i loro diritti, in ciò non certo aiutate dall'atteggiamento di una magistratura prevalentemente asservita al potere.
Solo nella seconda metà degli anni '60, ed in particolare con l'autunno caldo, il movimento operaio e, di conseguenza, le sue organizzazioni sindacali, presero nuovo vigore, riappropriandosi di diritti non più fatti valere o rivendicandone altri che segnassero o riconoscessero l'importanza della classe lavoratrice nella società.
E' sulla base di questa forte pressione che venne introdotta, dapprima la L. 604/66 sui licenziamenti individuali e poi su proposta del Ministro del Lavoro Brodolini, componente di spicco della sinistra socialista, lo Statuto dei Lavoratori, primo atto normativo nel quale vengono direttamente applicati al mondo del lavoro una serie di diritti universalmente riconosciuti, quali quello ad avere una propria religione e opinione politica, senza dover subire discriminazioni, ed introducendo principi di tutela sindacale assolutamente nuovi e che hanno portato l'Italia all'avanguardia rispetto alle altre nazioni europee.
La tensione sociale era tale, all'epoca, che una normativa così innovativa e progressista venne accolta con riserva da una parte cospicua della sinistra, che riteneva che i principi ivi affermati non fossero sufficienti per tutelare i diritti della classe lavoratrice.
Oggi quella posizione fa un po' tristemente sorridere, in un momento nel quale ci troviamo di fronte ad un attacco massiccio ai diritti del mondo del lavoro e l'unica risposta praticabile appare, sovente, quella di un tenace ancoramento a quei principi.
Con qualche anno di ritardo, anche l'aspetto processuale venne adeguato alle nuove esigenze espresse dalla società e venne così introdotto con la L. 533/73 il nuovo processo del lavoro caratterizzato dai principi di celerità, concentrazione e riconoscimento al Giudice di ampi poteri d'ufficio istruttori.
Tutta la legge è permeata da un principio di favor lavoratoris che emerge, esemplificativamente, dalla previsione della provvisoria esecutorietà di tutte le sentenze di condanna a carico del datore di lavoro, oltre che dalla possibilità per il Giudice di emettere anticipatamente ordinanze di condanna del datore di lavoro per somme già accertate come dovute al lavoratore.
In un simile quadro di innovazione, sostanziale e processuale, si è, infine, inserita anche la Magistratura che, finalmente, ha potuto partecipare ad un discorso di effettiva realizzazione dei diritti, attraverso una coraggiosa modifica del concetto di interpretazione della norma in chiave evolutiva.
Nacque, così, il fenomeno dei c.d. "Pretori d'assalto" che emisero sentenze direttamente incidenti sulla tutela dei diritti sottoposti al loro giudizio ma, indirettamente, anche sulle dinamiche sociali delle lotte contrattuali in corso.
Si trattò di un fenomeno certamente positivo (anche se non mancarono, come sovente accade, esasperazioni e forzature della norma): sia per la forza del movimento operaio, sia per il contributo che venne, oltre che dalla Magistratura, anche dagli avvocati, in tema di elaborazione degli strumenti più efficaci per la tutela dei diritti dei lavoratori.
Purtroppo, si trattò di una breve fase, conclusa con la storica sconfitta del movimento operaio nella vertenza sindacale Fiat del 1980.
Da quel momento, cominciò una nuova fase, nella quale il padronato non solo riuscì a far prevalere le sue posizioni ma, con grande acume tattico, cercò, riuscendovi, di convincere parte del movimento sindacale e degli intellettuali che gli ruotano attorno, della bontà delle sue tesi, secondo le quali il benessere italiano dipende dalla competitività delle imprese; la competitività dipende dal prezzo delle merci; il prezzo dipende dal costo del lavoro, che in Italia veniva ritenuto particolarmente alto e, dunque, bisognava ridurre il costo del lavoro (rectius, non aumentare i salari), per migliorare il livello di vita (meglio se ciò avveniva accompagnato da una robusta flessibilità)!
Le OO.SS. cominciarono ad introiettare le idee confindustriali: ecco, così, nascere la logica della concertazione supportata anche da un movimento di idee che mirava a raggiungere i risultati ineluttabili derivanti dall'accettazione delle regole del mercato in maniera "progressista", che si facesse, cioè, carico del rispetto di alcuni principi irrinunciabili in tema di tutela dei diritti.
Ciò rimase vero sia nella fase in cui continuò a governare l'asse DC/PSI, sia nella fase del trapasso dalla I alla II Repubblica, sia nella fase del I governo Berlusconi, sia successivamente, anche con il primo governo diretto da un esponente della sinistra: anzi, il fatto che al governo vi fosse l'erede del PCI ha consentito di spingere questo discorso assai in avanti, senza grosse resistenze da parte del movimento dei lavoratori.
E' ovvio che, in quella fase, la spinta evolutiva delle tutele in materia di diritto del lavoro si attenuò, perché si inaridirono le fonti stesse della ricerca applicativa, si credette sempre di più alla tesi della soluzione delle controversie in sede sindacale, senza tener conto delle difficoltà in cui i sindacalisti stessi si trovavano ad operare, stante la debolezza complessiva del movimento.
Naturalmente, la Magistratura, priva della stessa materia prima, e senza quel consenso di fondo che l' aveva sostenuta sino ad allora, si ritirò nel suo guscio ed anche l'elaborazione dottrinale si rivolse più alle modalità di attuazione di un sistema-lavoro moderno che non alla continua ricerca di nuove vie di salvaguardia dei diritti dei lavoratori: anzi, una difesa troppo strenua dei diritti veniva fatta passare per corporativismo bieco: tutti ricorderanno le polemiche circa i diritti dei padri che finivano per danneggiare i figli.
Il meccanismo messo in atto aveva riguardo sia alla natura stessa del rapporto di lavoro, sia alle forme di tutela dello stesso e di risoluzione delle controversie.
Sul piano sostanziale, l'accettazione della flessibilità come modo per modernizzare il sistema-lavoro e restare competitivi ha comportato conseguenze la cui portata non siamo ancora in grado di valutare nella loro gravità; credo che la si possa paragonare a quella determinata dalla sciagurata scelta del sistema maggioritario, come modo per superare un sistema considerato antiquato e corrotto: solo oggi, almeno una parte della sinistra si è resa conto dell'errore in cui era caduta; speriamo che, nello stesso modo, qualcuno cominci un'azione di opposizione alla nuova normativa in tema di lavoro e di tutela dei conseguenti diritti.
L'analisi storica che precede consente di comprendere come non sia esatto attribuire al solo governo Berlusconi la responsabilità dell'attuale situazione in campo giuslavoristico, figlia di un ben più complesso meccanismo, voluto dal potere economico ed al quale la sinistra ed il mondo sindacale non hanno, in parte consciamente, in parte inconsciamente, saputo e voluto opporsi.
Le responsabilità del governo Berlusconi, in questo campo, stanno nell'aver cercato di forzare oltre misura la situazione, commettendo, così, anche in questa materia, lo stesso errore che ha commesso nel campo della giustizia, in generale: proprio da questo errore nasce la speranza, perché la mobilitazione in difesa dell'art. 18 S.L. dimostra come esista una coscienza civile nei cittadini, non disposta a farsi mettere a tacere da presunte ragioni ineluttabili del mercato, neanche se supportate da fantasiose ricostruzioni del reale, secondo le quali i giovani sarebbero contenti di non avere il fastidio di un lavoro fisso, di gran lunga preferendo la libertà di trovare un rapporto di lavoro meno stabile, ma più libero (come il lavoro a chiamata, nel quale il lavoratore deve restare a disposizione del datore di lavoro, lavorando solo quando richiesto e, per il resto, accontentandosi di una irrisoria indennità di attesa!).
Ecco, dunque, sorgere imperiosa la necessità di un'informazione puntuale e precisa sulla situazione cui siamo giunti, che consenta a tutti i lavoratori, sia a quelli con rapporto stabile, sia agli altri a tempo determinato o con lavori atipici, sia a quelli eventualmente fruitori, in futuro, della nuova normativa, di conoscerne pregi (?) e difetti.
Abbiamo visto come, in relazione alla campagna di difesa dell'art. 18 S.L., sia stata importante l'opera di illustrazione capillare della situazione normativa, anche comparandola a quella di altri paesi europei, per sfatare falsi luoghi comuni, diffusi ad arte dalla stampa padronale, legati ad una presunta radicale differenza della situazione italiana rispetto al resto d'Europa.
Ma se sull'art. 18 S.L. molto si è fatto, con buoni risultati, almeno per il momento, poco o nulla si è fatto per illustrare fino in fondo le caratteristiche della normativa nascente dal Libro Bianco sul lavoro, normativa che oggi passa, con un'operazione di maquillage vergognoso, sotto il nome di Legge Biagi, all'evidente fine di impedire o limitare le critiche.
Il Libro Bianco prospettava una vera e propria rivoluzione nel campo del diritto del lavoro e propugnava l'adozione di "norme leggere" che orientassero l'attività dei soggetti destinatari, senza costringerli ad un determinato comportamento.
Il Libro Bianco è stato, ora, trasformato, con scarse modifiche, nel D.Lgs. n. 30/2003; e subito sono stati presentati i progetti di legge delegati; già lo strumento utilizzato, quello della legge di delega, avrebbe dovuto indurre a qualche timore, posto che, così facendo, si impedisce sostanzialmente un autentico esame da parte del Parlamento, dopo l'approvazione dei principi generali, delle norme elaborate dal Governo, sulla base di quei principi; mai era avvenuto che si utilizzasse una simile procedura in una materia tanto delicata, come il rapporto di lavoro e, per giunta, in una fase di sua radicale trasformazione.
Manca lo spazio, in questo articolo, per affrontare dettagliatamente il contenuto dei vari progetti di legge delegati; ciò che si deve osservare è che essi sono tutti caratterizzati da una logica neoliberista e che mirano a rendere operativa l'abolizione di alcuni principi-cardine del nostro ordinamento in tema di diritto del lavoro: il rapporto di lavoro subordinato diventa una delle varie possibilità di svolgimento dell'attività lavorativa, e quella meno confacente allo spirito del Libro Bianco; la qualificazione giuridica del rapporto di lavoro viene preventivamente affidata ad enti bilaterali, con la partecipazione delle OO.SS., onde l'impugnazione avanti il Giudice del Lavoro diventerà ancora più difficile; il divieto di intermediazione di manodopera viene abolito, con l'introduzione autorizzata, anzi, auspicata, di una forma di caporalato, con l'unica differenza che esso viene affidato a società iscritte in appositi registri; vengono istituite nuove forme di lavoro, quale quello a chiamata, lo staff leasing e le prestazioni di lavoro occasionale, che hanno come caratteristica preminente quella di scindere il rapporto tra lavoratore e datore di lavoro: il lavoratore è considerato uno strumento che può essere utilizzato quando e se serve.
Va da sé che se la nuova normativa non verrà combattuta con tutte le armi consentite, la ventilata modifica dell'art. 18 S.L. sembrerà una ben piccola, e quasi irrilevante cosa, a fronte di modificazioni genetiche del rapporto di lavoro, come sono certamente quelle di cui stiamo trattando.
Peraltro, la questione dell'art. 18 S.L. è tutt'altro che accantonata; essa costituisce oggetto di un'apposita delega, che il governo ha, solo temporaneamente, deciso di non attivare, probabilmente in attesa degli eventi.
In ogni caso, se il rapporto di lavoro subordinato costituirà sempre di più un'eccezione, la rilevanza dell'art. 18 S.L. automaticamente scemerà.
Se questa è la situazione sotto il profilo del diritto sostanziale, ugualmente grave appare la questione sotto il profilo processuale.
Su questo piano, il padronato, e con lui il governo, si stanno movendo in maniera tale da impedire alla Magistratura, unico potere che, ad oggi, si sia contrapposto al pensiero unico dominante, di poter svolgere quel ruolo di tutela dei diritti e di equa amministrazione della giustizia che le è proprio.
Come intendono arrivare a ciò?
Da un lato andando verso una privatizzazione della giustizia del lavoro, attraverso il ricorso all'arbitrato, come metodo di risoluzione delle controversie; dall'altro, con un significativo ripetersi di quanto accaduto in passato, affossando il processo del lavoro come tale, per ricondurlo nell'alveo del normale processo civile.
Esaminando il primo aspetto del problema, si deve dire che il ricorso all'arbitrato è da tempo al centro di discussioni e dibattiti; sino ad oggi esso era consentito, nelle controversie di lavoro, solo se previsto dai contratti collettivi e senza pregiudizio della facoltà delle parti di adire l'autorità giudiziaria.
Peraltro, pur in presenza di situazioni devolvibili in arbitrato, a sensi di accordi collettivi, non risulta che ciò sia avvenuto.
Ora, la situazione cambia drasticamente, almeno nell'impostazione voluta dal Libro Bianco, perché il ricorso all'arbitrato viene individuato proprio come lo strumento principe per amministrare "con maggiore equità ed efficienza" le controversie di lavoro, quasi che la magistratura avesse sino ad oggi svolto il suo lavoro in maniera iniqua ed inefficiente: tra l'altro, l'arbitrato viene individuato come strumento particolarmente utile in materia di licenziamenti, nel senso che spetterebbe all'arbitro, ad esempio, decidere per la reintegrazione o per il risarcimento del danno.
Ma parlare semplicemente di arbitrato è ancora limitativo, se non si precisa che quello che viene auspicato dal Libro Bianco è un arbitrato secondo equità: "l'istituto arbitrale sarebbe assai incentivato [...] se la decisione venisse resa su base equitativa - unica garanzia per i tempi certi - e l'impugnabilità potesse essere proposta solo per vizi di procedura" (pag. 43).
Come si vede, il Libro Bianco delinea, dunque, un arbitrato svincolato dal rispetto delle leggi e dei contratti ed impugnabile solo per questioni formali.
In effetti, se si trattasse di arbitrato secondo diritto, si ricadrebbe, secondo il padronato, nelle stesse perdite di tempo (!) che oggi caratterizzerebbero il processo del lavoro; ed allora, via lacci e laccioli, rappresentati da leggi e contratti ed apertura all'equità; la conseguenza indotta da una tale scelta è di immediata comprensione: quale motivo avrebbero le OO.SS. di stipulare contratti, se poi fosse possibile all'arbitro disattenderli, per presunti motivi di equità? E quale motivo avrebbero, a maggior ragione, i lavoratori di scioperare per la sottoscrizione di un contratto, se esso fosse valido solo sino al momento in cui, in caso di controversia, un arbitro decidesse di disapplicarlo?
Quanto alla volontarietà del ricorso all'arbitrato, ribadita nel Libro Bianco, essa rischia di essere vanificata qualora, come si sostiene da parte confindustriale, il ricorso all'arbitrato, se previsto nei contratti collettivi, debba essere ritenuto immediatamente applicabile a tutti i lavoratori del settore.
La situazione è resa ancora più grave dal tentativo di coinvolgere le OO.SS. nella gestione di questa privatizzazione; ho accennato già alla previsione di enti bilaterali (composti, cioè, da rappresentanti delle parti sociali) con la funzione di individuazione e la certificazione della natura autonoma di un rapporto di lavoro; aggiungo, a questo proposito, che addirittura, se il lavoratore, nonostante tutto, adisse la magistratura e questa, dopo aver assunto le obbligatorie informazioni presso l'ente bilaterale, dichiarasse la difformità del rapporto in atto rispetto a quello indicato dall'ente bilaterale, la pronuncia giudiziale avrebbe efficacia solo dal momento della pronuncia.
Non c'è dubbio che il coinvolgimento delle organizzazioni sindacali nella gestione aziendale finisce per snaturare la ragione stessa dell'esistenza del Sindacato e lo allontana sempre di più dalla rappresentanza dei diritti dei lavoratori, per trasformarlo, a poco a poco, in strumento di cogestione del potere, rendendolo, potenzialmente, un avversario dei propri iscritti.
Ultima, ma non trascurabile, conseguenza della privatizzazione della giustizia è costituita dai costi degli arbitrati, indubbiamente non trascurabili; oggi, il rito del lavoro è privo di costi, anche se, da qualche tempo si è diffusa l'abitudine di condannare il lavoratore soccombente al rimborso delle spese affrontate dalla controparte, fatto assolutamente episodico in passato.
Con la riforma, ci si troverebbe in una situazione peggiore, perché, al di là delle spese di lite, gli arbitri inevitabilmente chiederanno degli acconti per procedere e questi verranno messi o a carico del lavoratore ricorrente o, nella migliore delle ipotesi, a carico di entrambe le parti: ciò significherebbe, di fatto, vanificare il ricorso alla giustizia di un numero non indifferente di lavoratori, non in grado di pagare nemmeno quelle somme.
Quanto al secondo aspetto del problema, vale a dire l'assimilazione del processo del lavoro a quello ordinario, si tratta di una ulteriore precauzione da parte del padronato, nell'ipotesi che la privatizzazione della giustizia del lavoro non dia i risultati sperati o che, comunque, ciò che ad essa sfugge possa essere motivo per la Magistratura di infilare un cuneo nel monolitico sistema che si sta creando.
Ricordavo, all'inizio di questo articolo, come il R.D.6/2/28 n. 471, che conteneva norme di specialità per le cause di lavoro, fosse stato abrogato nel 1942, con la motivazione che il rito in esso previsto era, sostanzialmente, fallito, anche per il boicottaggio di avvocati e magistrati.
Ora, a distanza di 60 anni, si vuole far fare al processo del lavoro, mitica bandiera di una fase storica, la stessa fine, motivando la decisione con le stesse ragioni di allora, oltre che con il fatto che oggettivamente si sarebbe dimostrato inattuabile.
Ma è poi vero che il processo del lavoro abbia fallito i suoi obiettivi?
Certamente, esso soffre di gravi squilibri territoriali, ma ha ampiamente dimostrato che, come sistema, è assolutamente realizzabile e funzionale.
Alcuni importanti distretti, validamente funzionanti come quelli di Torino, Milano e Genova, hanno dimostrato come il mancato funzionamento altrove del processo del lavoro non sia legato allo strumento in sé, ma a problemi di organizzazione del lavoro, di vacanza di organici, di inefficienza di magistrati e, non ultimo, ad un uso distorto dello strumento giudiziale in alcune regioni italiane: non si spiegherebbe, altrimenti, ed a titolo esemplificativo, la sopravvenienza nel Tribunale di Napoli di n. 18696 procedimenti previdenziali, a fronte di n. 7328 procedimenti a Roma, di 2622 a Palermo, di 1494 a Genova, nel I semestre del 2002.
Evidentemente, dunque, si tratta di un ricorso in alcune realtà geografiche ad una forma di sussidio pubblico che viene incentivata anche dai patronati e che porta come sua conseguenza un intasamento del lavoro degli Uffici Giudiziari, portando, così, a pendenze drammatiche: 62632 procedimenti previdenziali e 35885 cause di lavoro a Napoli, sempre nel I semestre 2002, a fronte di 1618 procedimenti previdenziali e di 4462 di lavoro a Torino: i numeri si commentano da soli, soprattutto se si valuta che i giudici in servizio alla sezione Lavoro di Napoli sono 48, mentre sono 59 a Roma e 13 a Torino; ciò ha comportato, purtroppo, che, mentre a Torino, Milano e Genova le prime udienze di discussione nelle cause di lavoro sono fissate a 2-3 mesi dalla presentazione del ricorso, a Roma il lasso di tempo sale ad almeno 2 anni ed a Napoli si rischia di arrivare anche a 3 anni.
Ma, lo ripeto, il problema non sta certamente nel rito, che ha dato prova di poter funzionare, ma in aspetti collaterali, che non verrebbero meno con la trasformazione del rito: l'unico risultato di una normalizzazione del rito del lavoro rispetto al rito civile starebbe in una perdita di identità e di specificità della materia, in una rottura del rapporto diretto tra magistratura del Lavoro e cittadino (si ricordi che le cause di lavoro sono sempre pubbliche, proprio a significare il diritto-dovere del cittadino di assistere e partecipare alla gestione della giustizia in un settore così rilevante).
Si può, allora, concludere che si sta giocando una battaglia assai importante per la tutela dei diritti dei cittadini, rispetto alla quale l'informazione è scarsa: occorrerà la massima mobilitazione affinché la circolazione delle notizie e la spiegazione di quanto si nasconde nelle pieghe delle iniziative del governo inducano i lavoratori ed i cittadini tutti ad opporvisi, battendosi per il mantenimento di quel pacchetto di diritti irrinunciabili che sono sempre stati, negli ultimi 30 anni almeno, patrimonio dei lavoratori, per il rifiuto della privatizzazione della giustizia lavoristica e per la conservazione, anzi, il miglioramento dello strumento processuale specifico, voluto dal legislatore sin dal 1973; e ciò senza temere di essere definiti, come sovente succede, dei conservatori: se difendere i principi fondanti della nostra Costituzione è essere conservatori, sono fiero di esserlo.

Roberto Lamacchia