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La foglia di fico dell’etichettatura dei prodotti delle colonie israeliane
Redazione 26 novembre 2015 19:33
Dario Rossi commenta la “Comunicazione interpretativa” della Commissione Europa del 11/11/2005 sull’etichettatura dei prodotti israeliani provenienti dalle colonie.

Le novità introdotte della “Comunicazione interpretativa” della Commissione Europa del 11/11/2005 sull’etichettatura dei prodotti israeliani provenienti dalle colonie, non sono esattamente quelle che si potrebbero immaginare dalla lettura di tutto quanto pubblicato in questi giorni sui mezzi di informazione.

La UE non ha infatti introdotto alcuna nuova norma, ma si è limitata ad indicare in che modo vanno assolti gli obblighi derivanti da norme già esistenti, in ordine all’etichettatura dei prodotti israeliani che siano originari delle colonie del Golan e della Cisgiordania.

La UE ha già adottato numerose disposizioni in ordine all’obbligo di indicare il luogo di origine dei prodotti (per es. per prodotti cosmetici, ortofrutticoli, pesce, carni bovine etc); esistono altresì nei singoli paesi UE analoghe regolamentazioni, (si pensi in Italia al Codice del Consumo, o alle norme penali di tutela dalle informazioni ingannevoli); trattasi di norme che pur esistendo da anni, risultano largamente inattuate, visto che nell’indifferenza generale, Israele continua a smerciare beni provenienti dagli insediamenti coloniali etichettandoli con il made in Israel.

In questo senso può ritenersi che la decisione della Commissione possa contribuire a dare un valido impulso per l’applicazione con maggior rigore del diritto esistente.

Al di là di questo effetto pratico, la Commissione si è limitata a precisare il contenuto dell’informazione che deve essere fornita al consumatore, stabilendo che questo genere di prodotti non potrebbe essere etichettato né con il made in Israel, né con il made in West Bank o in Golan: occorre infatti indicare espressamente che trattasi di beni provenienti dagli insediamenti israeliani (i Settlmemnts) nei territori palestinesi.

La Commissione pur affermando, con una certa ipocrisia, che l’obiettivo è quello di garantire il rispetto del diritto internazionale, non prende in minima considerazione il problema della legalità della circolazione di tali prodotti; scrive anzi a chiare lettere che “la presente comunicazione mira a salvaguardare l’apertura e la fluidità degli scambi , e non deve essere utilizzata per ostacolare la fluidità degli scambi commerciali”.

In realtĂ , secondo le espresse norme codificate nel Diritto Internazionale Umanitario, il commercio da parte di Israele dei prodotti originari dei territori militarmente occupati dal 1967, costituisce a tutti gli effetti un Crimine di Guerra.

È infatti universalmente riconosciuto (in base alle plurime prese di posizione dell’ONU e alle pronunce della Corte Internazionale di Giustizia) che ai territori palestinesi occupati sono applicabili il Regolamento dell’Aia del 1907, che vieta la confisca delle proprietà private dei paesi occupati, e dalla IV Convenzione di Ginevra del 1947 che considera crimine di guerra grave, la distruzione e l’appropriazione di beni non giustificate da necessità militari e compiute in grande proporzione facendo capo a mezzi illeciti e arbitrari.

Lo stesso Statuto della Corte Penale Internazionale, cui la Palestina ha recentemente aderito, considera crimine di guerra l’appropriazione di beni non giustificate da necessità militari e compiute su larga scale illegalmente ed arbitrariamente, ritenendo responsabili di tale crimine tutti coloro che lo incentivano e lo facilitano.

La “Comunicazione interpretativa” del 11/11/15, dimostra chiaramente quanto sia ancora lontana nella Comunità Internazionale la volontà di dare piena attuazione ai principi fondamentali del diritto umanitario, che qualifica senza incertezze quale crimine di guerra lo sfruttamento economico di un territorio militarmente occupato, da parte dello Stato occupante. L’esportazione e la vendita di beni originari del paese occupato, non solo dovrebbe essere radicalmente vietata, ma perseguita dalla stessa Corte Penale Internazionale.

In questa prospettiva la Comunicazione sull’etichettatura dei prodotti, se è indubbio che costituisca un fatto politicamente rilevante, rimarcando anche sotto il profilo degli scambi commerciali, che i territori occupati non sono sottoposti a sovranità israeliana (ma su questo non avevamo dubbi), finisce di fatto per regolamentare l’esercizio di una attività criminosa (come mai accaduto in passato), e può in realtà fornire ad Israele un buon argomento per sostenere che, qualora i consumatori siano correttamente informati, si tratti di attività perfettamente legittima.

Avv. Dario Rossi – Associazione Giuristi Democratici