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Diario di una settimana in Palestina - Dario Rossi
GD Genova 16 ottobre 2003 13:50
A cura di Dario Rossi il racconto di una missione effettuata dal 24.09.03 al 02.10.03. In allegato il Rapporto della Commissione Diritti Umani dell'O.N.U. sulla Palestina del 08.09.03

DIARIO DI UNA SETTIMANA IN PALESTINA dal 24 Settembre al 2 Ottobre
Partecipanti alla missione Federico Micali (nella duplice veste di avvocato e film-maker) Serena Mandelli (attrice), Barbara Ghiara (operatrice turistica), Stefano Lorenzi (film-maker), Franco Canevesio (giornalista), Dario Rossi (avvocato).
Sommario
1) GIOVEDÌ 25 SETTEMBRE
· Arrivo a Ramallah,
2) VENERDÌ 26 SETTEMBRE
· Betlemme
· Gerusalemme - capodanno sotto il muro.
· Sera
· Pensieri notturni
3) SABATO 27 SETTEMBRE
· Missione medica nei territori del nord
4) DOMENICA 28 SETTEMBRE
· Un incontro con Arafat mancato per poco - incontri con associazioni di Ramallah
5) LUNEDÌ 29 TELAVIV
· Processo Barghouti - commemorazione Intifada a Ramallah.
6) MARTEDÌ 30 SETTEMBRE
· Hebron
· Ancora Gerusalemme
7) MERCOLEDÌ PRIMO OTTOBRE
8) CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

Giovedì 25 Settembre
1) ARRIVO A RAMALLAH
Primo impatto con i check points.
Tra Gerusalemme e Ramallah ci sono una decina di chilometri, ma oggi nessuno sa esattamente, quando decide di spostarsi tra una città e l'altra, se arriverà e quando arriverà.
Al check point puoi anche rimanere in attesa per delle ore, anche essere respinto senza alcun particolare motivo. Entrando in Ramallah c'è un solo C.P. entri abbastanza velocemente, per uscire ce ne sono ben due, e stai fermo per delle ore.
La sera visitiamo il campo profughi di Ramallah, costruito nel 1948, sul terreno di proprietà dell'Onu. Conosciamo una bimba di due anni che si chiama Jenin, in ricordo del massacro fatto nel campo profughi durante la seconda intifada. In un centro sportivo c'è un piccolo monumento che ricorda 13 vittime di un'incursione israeliana nel campo profughi.
Il nostro accompagnatore, un professionista palestinese, con cui andiamo a cena, e che nonostante i nostri tentativi di pagare, ci offre tutto quello che consumiamo, ci racconta della vita che fanno lì, di suo fratello che dovrebbe curarsi gli occhi con il laser in un ospedale di Gerusalemme, ma le autorità israeliane non gli rilasciano il permesso da anni, di una famiglia che non è riuscita ad andare al matrimonio del figlio in un altro paese, perchè bloccata al check point, del fatto che sono tre anni che Israele, contravvenendo agli accordi, incassa l'IVA dei palestinesi, senza poi versarla all'autorità palestinese, che sono moltissimi i palestinesi che hanno ancora il certificato di proprietà della loro casa che si trova sul territorio attualmente di Israele, o addirittura le chiavi della porta, ma ora le loro case sono abitate dagli israeliani e non possono più tornarvi, che il Consolato italiano in Israele (correttamente) invece l'affitto lo paga ai palestinesi trovandosi su un immobile di loro proprietà, che a Jenin, a Hebron, a Nablus, c'è ancora il coprifuoco, per tutto il giorno, o per alcune ore della giornata.

2) VENERDÌ 26 SETTEMBRE
BETLEMME
In tutto sono circa 25 Km, tempo di percorrenza indeterminabile. Passiamo due check point e dobbiamo cambiare due volte il taxi.. Quando si arriva al check point, si deve scendere, passare dall'altra parte a piedi, dopo che ti hanno controllato i documenti, e prendere uno degli altri taxi che aspettano in gran numero dall'altra parte.
Per evitare i check point di Gerusalemme facciamo un giro più lungo, e passiamo vicino all'Università di Gerusalemme, dove stanno costruendo il MURO; il muro passa esattamente sul campo da pallone dell'Università, tagliandolo in due.
A Betlemme ci riceve un ragazzo, D. che lavora nel Ministero del Turismo palestinese, che ci dice che dopo l'inizio della seconda intifada e l'arrivo dei militari israeliani a Betlemme, il turismo ha subito un tracollo con un danno economico per la città incalcolabile. Le strade sono distrutte, tutti i lampioni sono divelti. Ora sono in fase di ricostruzione secondo un progetto finanziato dal Belgio.
Ci fermiamo a mangiare in un bar, e notiamo che i succhi di frutta sono israeliani, l'acqua pure, e la cosa ci stupisce. Alcuni giorni dopo in Amman troviamo invece bottiglie d'acqua made in Palestina. Perchè è più facile acquistare prodotti palestinesi ad Amman piuttosto che in Palestina? D. ci dice che non possono fare altrimenti, tutte le importazioni e le esportazioni sono controllate da Israele. In teoria, non c'è alcun divieto di acquistare o vendere prodotti non israeliani, ma in pratica, sono tali gli ostacoli burocratici che vengono imposti, che acquistare "non israeliano" diventa antieconomico. I palestinesi riescono ad esportare in Israele invece solo pochi prodotti dell'agricoltura.
Gli pongo la domanda di rito,"ma come li vedi i kamikaze? Sono utili, condividi quello che fanno?"; mi risponde che non li condivide, e che probabilmente vengono utilizzati dai mezzi di informazione internazionali per giustificare la politica repressiva di Israele, ma che comunque, kamikaze o no, la politica israeliana di segregazione e di spopolamento nei confronti dei territori sarebbe sempre la stessa.
È una posizione che sostanzialmente, alla fine del viaggio, mi sento di condividere.
Visitiamo la chiesa della Natività dove sono ancora chiaramente visibili i segni lasciati dalle pallottole sui muri e sulle porte di ingresso. Vi sono rimaste chiuse dentro circa 150 persone per 38 gg. e alcuni sono stati uccisi mentre erano lì dentro. Non avevano nè da mangiare nè da bere, l'acqua era nel cortile, e se cercavano di andarla a prendere gli sparavano. I soldati israeliani durante l'assedio si erano arrampicati su delle gru altissime, dalle quali tenevano sotto tiro l'interno della basilica. Controllavano i movimenti delle persone all'interno con una telecamera installata su un pallone aerostatico, che stazionava sopra la basilica. Le persone uccise dai cecchini sono rimaste dentro per settimane, a putrefarsi nella stessa stanza dove rimanevano gli altri assediati. Neanche i nazisti, ci dice D., erano mai arrivati a tanto.
Nelle strade di Betlemme sono affissi dei poster che riportano il testo della risoluzione ONU n. 194 del 1948, che sancisce il diritto dei palestinesi a tornare nelle loro terre o ad essere risarciti nel caso in cui non volessero tornare. Penso alle campagne di stampa che vengono fatte nel nostro paese sul terrorismo palestinese, così lontane dalla realtà delle richieste palestinesi.
Anche a Betlemme, naturalmente c'è un campo profughi, creato nel 1948, dove si trovano i profughi di ben 38 paesi diversi. Nel campo profughi c'è un centro culturale, ben organizzato, che è "gemellato" con una associazione svedese di tutela dell'infanzia. Parliamo con uno dei responsabili del centro, che vorrebbe che degli italiani andassero lì a fare delle lezioni di cinematografia, per insegnare ai bambini a documentare quello che succede in Palestina. Ci fa vedere i resti della bomba che ha distrutto la sua casa nel 1948, la serratura di casa, che conserva ancora in una bacheca. Parliamo anche con un bambino quindicenne del centro, che ci arringa per circa venti minuti, dicendoci che i palestinesi non hanno alcun diritto. Gli facciamo la solita stupida domanda, "cosa vorresti fare da grande?". Ci risponde che vorrebbe avere un'arma potente come non si è mai vista, per tirarla sulla testa di Sharon.
Uscendo da Betlemme passiamo davanti alla ex palazzina dell'autorità nazionale palestinese, un cumulo di macerie. Quando l'hanno distrutta, mi dicono, non c'era nessuno dentro, fortunatamente.

GERUSALEMME - CAPODANNO SOTTO IL MURO.
Arriviamo al check point di Gerusalemme, bisogna avvicinarsi due a due, io faccio lo gnorri e cerco di passare, mi bloccano: "mi scusi, dico, non sono abituato ai check point, e non so come comportarmi". Dentro il check point ci sono tre soldati ragazzini, con delle torte e delle pizze, me ne offrono un po'. Corraggiosamente rifiuto. I militari sembrano dei bambini il più delle volte, e quando sono gentili, ti chiedono da dove vieni, dicono che l'Italia gli piace.
Dopo un centinaio di metri c'è uno di quelli che chiamano check point volanti, due militari che fermano macchine e pedoni a loro piacimento, e ti chiedono i documenti. Mi avvicino ad uno di loro per sapere a che ora chiude il C.P. di Kalandyia, non lo sa, ma in compenso, per punirmi della domanda, mi chiede i documenti, solo a me in tutto il gruppo.
Decidiamo di fermarci a Gerusalemme, prima di tornare a Ramallah, ed entriamo nel centro storico, dalla Porta di Damasco. Passando dal quartiere islamico a quello israeliano, rimaniamo colpiti dalla quantità di ebrei ortodossi che si vedono, stranissimi tipi, barbe lunghe, basette a boccoli, nerovestiti, con cappelli a punta quadra e a tese larghe che ricordano un pò il pifferaio magico. Notiamo il loro sguardo, per lo più vuoto, assente, all'infinito, soprattutto nei più giovani. Non ti vedono, ti trapassano con lo sguardo.
Arriviamo al tunnel che conduce al muro del pianto, combinazione il giorno in cui inizia il capodanno ebraico. Per arrivarci, dobbiamo passare l'ennesimo check point, presidiato da polizia, soldati, vigili, e chi più ne ha più ne metta. Mi devo togliere anche la cintura dei pantaloni, frugano dappertutto. Sotto il muro del pianto molti pregano faccia al muro, molti altri saltano, ballano e battono le mani cantando una nenia, sempre la stessa, ripetuta all'infinito, per tutto il tempo che siamo stati lì, circa una mezz'ora. Sembrano invasati, e non hanno l'aria di chi si diverte veramente. Mentre osserviamo veniamo avvicinati più volte da persone che con aria minacciosa ci dicono che non si può fotografare, e facciamo del nostro meglio per disobbedire. Stefano è un drago nel riprendere in qualsiasi condizione e avversità.
Le donne sono oltre una paratia e pregano anche loro; quando si allontanano dal muro devono camminare all'indietro, per non dargli le spalle in segno di rispetto. Il tutto è decisamente surreale, sembra di essere tornati indietro nel tempo di centinaia di anni, tanto l'abbigliamento, il taglio di capelli, il modo di fare di quella gente è rimasto insensibile al decorso del tempo, alle mode, all'influenza del mondo in cui sono vissuti. Comunicano arroganza, e suscitano antipatia.
Prima di tornare a Ramallah ci incontriamo con un avvocato dell'associazione Mandela, accompagnato da uno psichiatra sessantenne israeliano di origine ebrea, che divide il suo tempo tra Israele e la Somalia, fortemente contrario alla politica israeliana, che definisce più volte razzista e nazista. Ci dice che ha provato a chiedere il permesso di entrare a Gaza, ma gli è stato rifiutato, adducendo motivi di sicurezza. Gli israeliani non possono entrare a Gaza. Ma se è pericoloso per loro, si chiede, perchè fanno entrare gli stranieri?
Forse, il vero motivo è che non vogliono che gli israeliani sappiano cosa succede realmente a Gaza.
Tornando a Ramallah, notiamo che tutti i taxisti, che in genere, almeno per la mia esperienza, nei paesi arabi sono piuttosto comunicativi, qui sono tristi, non parlano mai, non ridono, non scherzano neanche con la forza.
SERA
Torniamo a cena con il nostro amico di Ramallah, stasera riusciamo a pagare noi, placcandolo in tre; continua a raccontarci cosa accade in Palestina. Ci dice che il suo ufficio durante l'occupazione è stato devastato dai militari che hanno rotto tutto, ha ancora i segni delle pallottole sui muri che non vuole riparare. Quando è morto il giornalista italiano, Raffaele Ciriello, sono venuti a recuperare la salma il capo dell'ambasciata italiana ed un medico. Anche loro sono stati costretti a stare sei ore in coda al C.P. Le auto diplomatiche del resto sono state più volte oggetto di spari da parte degli israeliani, e a Betlemme ne sono state colpite almeno una decina delle più diverse nazionalità. Dice che difendersi è impossibile, non hanno neppure la possibiltà di procurarsi delle armi, accerchiati come sono su tutti i lati della Cisgiordania dagli israeliani. Il fatto poi che la comunità internazionale non dica niente, e che gli USA appoggino espressamente Israele, lo rende completamente sfiduciato sulla possibilità di porre fine alla crisi che vivono nei territori. Non c'è da meravigliarsi, ci dice, se poi ci sono i kamikaze, l'unica risposta disperata che sia consentita ai palestinesi. Non è più possibile neanche recarsi all'Università di Ramallah, in quanto per raggiungerla bisogna passare un C.P. dove si aspetta delle ore. È un C.P. privo di senso perchè in quella zona non ci sono coloni, nè case, è fatto solo per rompere le scatole agli studenti. Alcuni corsi universitari sono tenuti in città, stante le difficoltà di raggiungere l'ateneo. Lo scorso anno scolastico per ovviare alla impossibilità per gli studenti di raggiungere la propria scuola, l'Autorità Palestinese ha stabilito che gli studenti possono recarsi a seguire le lezioni in qualsiasi scuola si trovi nelle loro vicinanze, anche essendo iscritti in altri istituti.
Lui stesso, che pur non ha alcuna limitazione di movimento nè precedenti di alcun tipo, e che si può muovere liberamente in qualsiasi paese del mondo, non ha il permesso di entrare in Israele.
Lo scopo dei C.P. non è in alcun modo quello di garantire la sicurezza, lo dimostra il fatto che non ti controllano mai la borsa, ma solo i documenti, spesso hai la possibilità di evitarli semplicemente facendo un giro un po' più lungo, passando da strade laterali. L'unico scopo più che evidente dei C.P. è quello di esasperare la gente e rendere impossibile la normale vita quotidiana. Ài C.P. fissi, che sono circa 200 in tutta la Palestina, si devono aggiungere quelli ambulanti, che vengono improvvisati dalla polizia. Spesso, ci dice il nostro amico, ti fermano, si fanno dare documenti e chiavi della macchina e se ne vanno, lasciandoti sotto il sole, in mezzo al deserto, per tornare dopo cinque ore. A qualcuno dei camionisti, è capitato che gli buttassero addirittura via le chiavi. Oggi una carovana di cinque pullmans proveniente da Betlemme, è stata bloccata al C.P. di Kalandyia; sono scoppiati tafferugli, sono volate delle pietrate. Sono ormai 10 mesi che Arafat è confinato nella sua Moqata, protetto da quattro scalcinati militari palestinesi, e sorvegliato a vista dagli israeliani piazzati all'ultimo piano del frontistante Ministero della Cultura palestinese. A volte ai C.P. vedi i soldati che menano dei bambini, ma non ci puoi fare nulla, chi cerca di intervenire o di fermarli viene a sua volta malmenato, se non gli sparano addosso.
L'ingegnere ci dice che negli ultimi due anni il suo lavoro è calato di 8 volte, potrebbe lavorare dove vuole all'estero, ma si sente sempre più attaccato a quella terra.
PENSIERI NOTTURNI
Quello che stupisce, nei nostri interlocutori, oltre la visione completamente pessimistica, ma ahimè realistica della loro situazione, è il loro spirito combattivo, mai rassegnato, e soprattutto la libertà e la sicurezza con cui ci parlano della loro situazione. La coscienza politica, e la lucidità dei ragionamenti, mi sembra molto elevata in tutti gli interlocutori palestinesi con cui abbiamo avuto occasione di parlare. Diverso mi era sembrato il Kurdistan, ove si respirava chiaramente la paura anche di parlare e di muoversi. La paura più grossa in Palestina, è invece quella di incontrare una pallottola che ti buca la fronte, ma più li pressano più si rafforza la loro coscienza politica, la loro voglia di urlare al mondo quello che stanno passando.
Dopo due giorni di permanenza in Palestina, dopo i racconti delle persone che abbiamo intervistato, dopo avere visto i riti che si celebrano al Muro del Pianto, mi chiedo se non ci sia qualche elemento nella religione ebraica che facilita il verificarsi di tutto ciò. Mi chiedo se non ci sia qualcosa che differenzia l'ebraismo dalle altre religioni, dal buddismo, dal cristianesimo, dalla religione musulmana. Se quell'invenzione della mente umana, che credo essere la religione, che ha lo scopo di appagare l'esigenza di spiritualità dell'uomo, non abbia qualche difetto di fondo nell'ebraismo; un difetto che li porta prima ancora a soffrire loro, che vivono comunque male, per quanto siano armati. Non ne so abbastanza, cercherò di documentarmi, ma il dubbio mi viene.
Penso alla difficoltà anche linguistica oltre che concettuale che ho trovato in questa settimana tutte le volte che dovevo affrontare discorsi che riguardassero i rapporti tra palestinesi, israeliani, arabi, ebrei, musulmani. Per esempio, se ti chiedi quanta della popolazione di Israele sia palestinese e quanta non lo sia, devi confrontare necessariamente un'entità numerica caratterizzata da un territorio con una caratterizzata da un credo religioso, due entità non omogenee che viene innaturale porre a confronto. I palestinesi possono essere musulmani, cristiani, armeni, cattolici, testimoni di geova; sono tutti coloro che sono legati per nascita, residenza, tradizioni etc., al territorio della Palestina storica su cui è sorto Israele; gli altri quelli che non sono "palestinesi" sono ebrei, non li puoi chiamare israeliani perchè anche i palestinesi che vivono in Israele lo sono. E' come chiedersi quanti sono i marchigiani che ci sono nelle marche confrontandoli con quanti sono i testimoni di geova che vivono nelle marche, e che non puoi chiamare marchigiani, è assurdo!

3) SABATO 27 SETTEMBRE
MISSIONE MEDICA NEI TERRITORI DEL NORD
Con l'avvocato di Mandela e lo psichiatra sessantenne, partiamo per il nord della Cisgiordania (West Bank, ci dicono loro, è un termine Yankee), con una carovana di macchine dell'associazione di medici israeliani PHR (Phisicians of Human Rights che ha il suo omologo palestinese nel Medical Relife), a portare delle medicine alla clinica mobile di uno sperduto villaggio (Tara, si chiamava o qualcosa di simile). Sono medici israeliani, ma mancano gli ebrei, perchè è ancora capodanno (beati loro dura tre giorni!). Per recarci lì ci spostiamo lungo il territorio israeliano per entrare dal confine a nord; entrare nei territori da Gerusalemme renderebbe il viaggio troppo lungo e non certo di arrivare alla meta, nonostante ci sia solo una ottantina di Km, a causa dei C.P. Costeggiamo per lunghi tratti il Muro maledetto, che in questa zona è quasi completato. La città di Kolkilia è quella che si trova nella situazione più agghiacciante, perchè è posizionata proprio a ridosso della linea verde (che è la linea di confine tra i territori occupati ed Israele), ed è stata completamente circondata dal Muro, che la cinge con un anello. La popolazione è praticamente segregata nel paese, e non può uscire che passando dai check point israeliani. Molti coltivavano i campi fuori dalla città ed ora si trovano impossibilitati a raggiungerli, se ne sono dovuti andare. Sono state spezzate tutte le attività economiche. Da quando è stato ultimato il muro la popolazione è drasticamente diminuita.
Kolkilia è la prova evidente che il muro non ha alcuna correlazione con la sicurezza di Israele, perchè se così fosse sarebbe stato sufficiente costruirlo dal lato est della città e non circondarla completamente anche rispetto agli stessi territori occupati. Lo scopo evidente è quello di strozzare la città, costringendo gli abitanti alla fame e alla inevitabile fuga.
Viene facile alla mente una frase che per ora mi ero limitato a ripetere perchè sentita da altri, "crimine contro l'umanità".
Il muro prosegue verso nord, ecco alcuni dati: Lunghezza complessiva da nord a sud: 360 chilometri. Altezza: 8 metri. In due anni, per costruirne 115 chilometri sono stati tagliati 83.000 alberi e sono stati sottratti ai palestinesi 31 pozzi d'acqua sotterranea che ora sono a disposizione di Israele. I pozzi fornivano acqua alla Palestina per 3,8 milioni di metri cubi l'anno. Per costruirlo, 11 villaggi sono stati completamente separati dal resto dei territori e 13.240 persone ora vivono isolate. Duemila famiglie hanno perso il loro terreno. Per costruirlo, gli Stati Uniti danno ogni mese a Israele THREE BILLION DOLLARS.
Entriamo nei Territori, e veniamo fermati da un ragazzino vestito da soldato che ci chiede i documenti, proseguiamo ed arriviamo al reticolato che in molti punti fa le veci del muro, la strada ci sbatte dentro ed il cancello che doveva essere aperto è irrimediabilmente chiuso, nessuno a sorvegliarlo. Torniamo indietro, cerchiamo di passare da un altro C.P., presidiato da dei Drusi (militari di origine araba, che sono considerati un po' dei traditori dai palestinesi). Non lasciano passare nessuno, molti palestinesi sono lì dalle sei di mattina, ora sono le 11 e non hanno nessuna intenzione di cedere. Uno di loro deve andare al funerale della nonna, ha anche il "permesso", ma non c'è verso. Anche la nostra carovana viene bloccata, nonostante sia guidata da una macchina con la bandiera della mezzaluna rossa, e che abbiano minuziosamente perquisito il carro nel quale sono portate le medicine. Con noi c'è anche un giornalista del Washinton Post, cui chiedo una sua valutazione della situazione; lui la ritiene un po'...... "complessa"(?!) .
Dopo circa un'ora, nel quale ho consumato un rullino da 36, ci lasciano passare. Costeggiamo ancora Kilometri di filo spinato, e raggiungiamo alfine la meta, Tara. Mentre i medici consegnano le medicine giochiamo nel cortile della clinica - scuola, al gioco del fazzoletto, un due tre stella, specchio, con le decine di bambini presenti, facendo un casino incredibile. Ci divertiamo come dei bambini anche noi.
Finisce anche qui con una grigliata di polpette e verdura!!

4) DOMENICA 28 SETTEMBRE
TRA LE MACERIE DELLA MUQUATA - INCONTRI CON ASSOCIAZIONI DI RAMALLAH
Avevamo in programma un incontro con Arafat, ma non siamo riusciti a vederlo, con nostro grande rammarico.
Visitiamo comunque la Muqata, che è il complesso ove si "trovavano" gli uffici governativi dell'Autorità Palestinese. Ora sono un cumulo di macerie. E' un'area molto grande, di una ventina di edifici rimane in piedi solo il complesso centrale, dove sono gli uffici di Arafat, che è sorvegliato, se così si può dire, da quattro soldati male armati, che si dimenticano anche di perquisirci o di chiederci i documenti, e che hanno abbandonato il posto di guardia per seguire una svedese bionda alta un metro e ottanta, che con noi si aggira per la Muqata.
Nonostante i pacchi e le delusioni, è comunque una giornata proficua. Ramallah è in pratica la capitale della Gisgiordania e vi si trova la sede di tutte le associazioni che operano in Palestina a favore dei diritti umani.
Ci incontriamo con Palestine Monitor, con l'associazione Mandela, con l'associazione per la liberazione di Marwan Barghouti, in pieno fermento perchè domani ci sarà la penultima udienza del suo processo nel quale rischia di prendersi una dozzina di ergastoli.
Entriamo per chiedere delle informazioni e ci chiama immediatamente il coordinatore dell'associazione, che arriva trafelato dal pranzo con i parlamentari europei, "scusandosi per il ritardo". Non ci sembra vero che qualcuno ci dia un po' di importanza, e lo ascoltiamo per un'ora e mezza, che viene integralmente registrata dai nostri due filmakers, nel corso della quale ci riassume praticamente tutto quello che c'è da sapere sulla Palestina. Ci parla delle convenzioni violate (sulla Tortura, la IV Conv. Ginevra, la conv. Onu sui Diritti dei Bambini), delle condizioni nelle carceri, dei dodicenni arrestati, dei territori del 48, del 67, della Road Map, dell'accordo di libero scambio tra UE ed Israele, del muro etc. E' un fiume di informazioni, e ascoltarlo è un piacere. Gli chiediamo se sarebbe disponibile a venire in Italia, a parlare della Palestina, e ci dice che basta chiederglielo. Si chiama S'Ad Nimir, è stato arrestato a 16 anni e condannato dopo un processo di tre minuti a sei mesi di carcere, a 17 anni ad altri sei mesi e a 27 anni, quando è stato condannato ad altri sette anni. Gli chiediamo se verrà domani al processo a Barghuti di Telaviv, ma ci dice che non gli è permesso perchè è considerato un pericoloso terrorista. Per lui la situazione Palestinese è disperata perchè manca completamente all'interno di Israele qualsiasi interlocutore con cui avviare un discorso per una soluzione pacifica. Dice che Rabin lo era, ora non c'è più nessuno come lui (ho sentito altri palestinesi dare giudizi diversi su Rabin).
Incontriamo anche la moglie di Barghouti, che viene impietosamente intervistata dai nostri filmakers, che non perdono un colpo. Anche lei domani, pur essendo la moglie, e pur facendo parte del collegio legale in quanto avvocato del marito, non ha avuto il permesso di recarsi a Telaviv. È del resto abbastanza frequente che i palestinesi arrestati, e deportati in Israele, in violazione della IV Conv. di Ginevra, non possano essere difesi dai loro avvocati, cui non viene concesso il permesso di recarsi in Israele. Barghouti a parte, che è difeso da un collegio internazionale, spesso i palestinesi sono difesi da avvocati di ufficio ebrei - israeliani.

5) LUNEDÌ 29 TELAVIV
PROCESSO BARGHOUTI - COMMEMORAZIONE INTIFADA A RAMALLAH.
Taxi per Telaviv alle 7, con partenza da Gerusalemme. Il processo si tiene alla High Court, e possono entrare solo le persone accreditate. Molti avvocati rimangono fuori; prima di me fanno entrare un prete, e alla mia contestazione che siamo in Tribunale e non in una sinagoga, rispondono senza tanti giri di parole che preferiscono fare entrare i preti piuttosto che gli avvocati.
Questa è l'udienza in cui Barghuti si difende, da solo (nella prossima udienza, che sarà l'ultima, parlerà l'accusa), avendo rinunciato a farsi assistere in udienza dal suo collegio difensivo. Non riconosce comunque la giurisdizione della Corte Israeliana, che non ha il potere di giudicarlo nè in base agli accordi di Oslo, nè in base al diritto internazionale, sostiene che si tratta di un processo meramente politico, e infatti fa una difesa solo e soltanto politica, senza spendere una parola per se stesso, nonostante l'accusa chieda la sua condanna a circa 12 ergastoli, uno più uno meno. Ricostruisce la storia della Palestina, e dice che Israele non cerca la pace, finchè non cessa l'occupazione non potrà esserci pace. E' un buon oratore, parla per circa 40 minuti venendo interrotto più volte dal presidente della Corte che lo accusa di dire cose non vere. B. invita i giudici ad alzarsi in piedi in segno di rispetto verso i 25 piloti che hanno rifiutato di partecipare alle azioni di uccisioni mirate nei territori palestinesi. Rivolge una domanda retorica, quasi ovvia, al giudice, che non può che rispondere dandogli ragione. "ecco, dice B., questa è la prima volta che lei dà ragione ad un palestinese", ride la sala, ride anche il giudice. Come fa a essere così brillante, mi chiedo, con 12 ergastoli e due anni di isolamento che gli pesano sulla schiena? Conclude dicendo che i palestinesi vivono in quella terra da sempre, e che non ci si trovano per fare i turisti. Quando finisce l'udienza si leva un applauso, e lui ringrazia gli osservatori internazionali per essere venuti ad assistere al processo. Un brivido di commozione mi prende.
Ritorno a Gerusalemme. Sorge qualche problema, tutti gli autisti israeliani hanno paura ad accompagnarci. Troviamo dopo un po' un ebreo immigrato dalla Polonia 15 anni fa, che accetta di portarci egualmente. Ci chiede perchè siamo lì e da che parte stiamo. Ci confessa di essere preoccupato perchè in Israele c'è la guerra. Pur essendo apertamente schierato contro i palestinesi, ammette che gli insediamenti sono ingiusti e che dovrebbero essere tolti. Non ha idea di dove sia Ramallah, di cosa sia un check point, nè ha mai sentito parlare di Kalandyia, dove da più di due anni fanno la fila auto e pedoni sul percorso Gerusalemme - Ramallah.. Da un lato è terrorizzato, dall'altro incuriosito di infilarsi in una zona dove ci sono solo arabi, con un veicolo che è chiaramente riconoscibile per essere proveniente da Telaviv, fosse solo per la pubblicità demenziale che gli tappezza la carrozzeria. Ci accompagna fino al check point, e gli ultimi chilometri li percorre a passo d'uomo, chiedendoci in continuazione quanto manca. Al ritorno si dovrà beccare anche lui uno dei check point, cosa che gli farà perdere almeno un'oretta, ma lo aiuterà sicuramente a capire come passano le giornate i palestinesi.
Giungiamo a Ramallah in tempo per partecipare alla manifestazione che celebra il terzo anniversario della seconda Intifada. Non c'è moltissima gente, ma l'atmosfera è surriscaldata. Ad un certo punto arrivano alcuni incappucciati di nero, sparando in aria; passano velocemente tra la folla e si dileguano in un attimo. Una nota di folklore, più che altro.
Verso sera visita alla sede del Medical Relife, dove chiediamo ad una ragazza molto cortese di consigliarci un itinerario per l'indomani. Telefona a Jenin, c'è ancora il coprifuoco, meglio andare ad Hebron, dove ci accoglierà un medico della sua associazione. Nella sede del Medical Relife, per una strana combinazione del destino, incontro un ragazzo dell'associazione Papa Giovanni di Rimini, che ho incontrato due anni fa a Diyarbakir, in Kurdistan, il quale sta discutendo con uno dei responsabili dell'associazione a proposito di un progetto di servizio civile internazionale per mandare degli obiettori di coscienza in Palestina. E' un bel progetto, che mi riprometto di studiare anche su Genova.

6) MARTEDÌ 30 SETTEMBRE
HEBRON
E' decisamente il posto che sta peggio di tutti quelli che abbiamo visitato. La provocazione degli israeliani è arrivata al punto da creare una colonia nel centro della città, occupando case già abitate da palestinesi. Hebron si divide in H1 e H2, la prima sotto il controllo palestinese, e la seconda corrispondente alla parte centrale della città, sotto il controllo israeliano, nella quale pullulano soldati posti a difesa di quattrocento stronzissimi coloni, che paralizzano un centro cittadino di circa 40.000 abitanti. Il centro è percorso da una strada che lo divide in due, alla quale hanno accesso solo i coloni con le loro vetture. Se un palestinese vuole passare da un lato all'altro della strada, distante poche decine di metri, deve fare un giro di una decina di km per uscire dalla città e rientrare dall'altra parte. Il Dr. del Medical Relife, ci porta a visitare il centro con un'ambulanza. Il panorama è agghiacciante. La città è controllata dalle alture da diverse postazioni militari, che hanno la visuale su tutta la città. Una di queste postazioni è stata installata in una scuola, costringendo gli scolari ad andare a fare lezione altrove. Nel centro storico ci sono numerose postazioni militari sui tetti delle case. Si riconoscono i luoghi dove sono posizionati dalle reti che coprono le terrazze per non consentire la visione dei soldati. Sono sparpagliati un po' ovunque. Quel giorno non c'era il coprifuoco, che viene imposto molto spesso. Il centro è un dedalo di viuzze sulle quali si affacciava il mercato, che dava vita ad una delle più graziose Kasbah che mi sia capitato di vedere, molto antica sicuramente. L'atmosfera è ora surreale, i negozi sono quasi tutti chiusi, il mercato è praticamente morto. Solo alcuni vecchi nelle botteghe, a parlare agli angoli delle vie, e qualche bambino che torna da scuola con la cartella sulle spalle. Il medico ci dice che i negozi sono stati costretti a chiudere a causa del coprifuoco continuo, ormai non circolava più nessuno. C'era in giro la stessa gente che ci sarebbe potuta essere di notte, ma si era in pieno giorno. Anche questo è un crimine contro l'umanità. Ci compriamo qualche ricordino nei pochi negozi rimasti aperti, un po' perchè sono degli oggetti decisamente belli, un pò per premiare la cocciutaggine di quei negozianti, che nonostante tutto si ostinano a tenere aperto. I vicoli sono protetti dall'alto da spesse reti, sopra le quali si vede di tutto, pietre grosse come un pugno, scatole di fagioli, spazzatura di ogni genere, che i soldati che stanziano sui tetti riversano nei vicoli sulla testa della gente. Un negoziante ci fa entrare nel suo negozio di alimentari per farci vedere i danni provocati dall'acqua che i soldati lasciano deliberatamente aperta al piano di sopra, che filtra nel suo negozio, ove sono immagazzinati gli alimenti. Telefonare all'amministratore ovviamente in questa situazione è impossibile, ed il negoziante è decisamente furioso!
Nel centro cittadino sono molte le case distrutte, un ragazzo sordomuto ci accompagna all'interno di una di queste, ci fa vedere le porte scardinate, le finestre sfondate, i mobili distrutti. Ci affacciamo alla finestra dell'ultimo piano, Stefano prova a filmare 12 militari sul tetto della casa di fronte, ma rientra di corsa, è troppo pericoloso. Ci dicono che gli israeliani non permettono di eseguire ristrutturazioni nelle case danneggiate, destinate a rimanere dei ruderi disabitati. Scopriremo poi che anche a Gerusalemme succede la stessa cosa, i palestinesi non possono ripararsi le case; e se non ci fai la manutenzione ad una casa, prima o poi cade a pezzi e te ne devi andare.
Siamo fortunati, oggi si può visitare la moschea, la cui parte più antica risale nientedimeno che ai tempi di Erode il Grande. Nella moschea sono custodite le tombe di Abramo, di Giacobbe e soci. Nel 1994 i coloni ebrei entrarono nella moschea durante la preghiera, e mentre i fedeli si trovavano accucciati aprirono il fuoco, uccidendo 29 persone, e ferendone centinaia. Da allora la moschea è stata divisa in due, una parte per i musulmani, ed una (la più grande) per gli ebrei. Attualmente è circondata da check point, che consentono l'accesso alla moschea solo ai musulmani con più di quarant'anni, i più giovani no, per motivi di sicurezza. Per accedere si deve passare una cancellata di ferro presidiata da un soldato che dormiva con la testa appoggiata al vetro, poi un primo check point dove ti fanno passare dentro un metal-detector e ti perquisiscono minuziosamente tasche e borse. La prossima volta che vado in Palestina mi porto una cintura con una fibbia in plastica, me la sono dovuta togliere decine di volte!
Ci rivestiamo, saliamo una breve scalinata ed ecco un altro check point, altra perquisizione, del tutto analoga a quella precedente. Sto per chiedere al soldato il motivo per cui ci perquisiscono due volte, quando i due controlli sono così vicini che si vede benissimo cosa succede nell'altro. La guida, un settantenne che aveva fatto da interprete agli inglesi negli anni quaranta, che è abile nello scherzare con i soldati e nel farsi ben volere, impeccabile in giacca e cravatta, mi sconsiglia di fare la domanda, e la tengo per me.
Non riesco a capire, guardando i soldati, se anche loro sono consapevoli della stupidità di quello che stanno facendo, oppure se sono veramente convinti. Ho una fiducia incrollabile nella bontà della natura umana, e sono convinto che presi uno a uno ammetterebbero di comportarsi come dei deficienti. Il motivo reale della perquisizione è comunque quello di rendere impossibile, o quantomeno scoraggiare oltre ogni limite l'accesso alla moschea. Il tutto avviene in un'atmosfera da day after, in una città fantasma, che fino a qualche anno fa doveva pullulare di vita. Dentro la moschea altri soldati ancora, a garantire la sicurezza della divisione tra la parte ebrea e quella araba.
Una curiosità, da quello che ho capito, mai nella sua storia, la moschea risulta essere stata utilizzata come sinagoga, ma comunque il complesso è di una bellezza straordinaria, e non mi meraviglio che gli ebrei ci vogliano pregare loro.
Il nostro gruppo si divide, i cineoperatori decidono di fare un giro nella parte israeliana, dove però il nostro medico non può entrare, e si avventurano da soli. Si imbattono in altri 4 check point, dove tuttavia non vengono perquisiti, ed entrano in una scuola di Settlers, dove dei bambini stanno facendo lezione; ad ogni risposta giusta il prof. gli lancia una caramella, come premio, come allo zoo.
Io e Franco, il giornalista, andiamo invece alla ricerca dei funzionari dell'ONU, che il nostro medico dice essere presenti ad Hebron come osservatori. Scopriamo però che non si tratta di ONU, ma del TIPH, una missione internazionale creata dopo il massacro della moschea del 1994 che ha il compito di monitorare il rispetto dei diritti umani a Hebron. Il funzionario norvegese che ci riceve dice che loro si limitano ad osservare quello che succede e a scrivere dei rapporti che vengono poi inviati alle autorità competenti dei rispettivi paesi. Fa riflettere la composizione del TIPH; ne fanno parte la Norvegia, la Danimarca, l'Italia, due paesi che non ricordo e la TURCHIA, un esempio mirabile di nazione rispettosa dei diritti umani, la quale, dopo avere sterminato milioni di Armeni negli anni 20, sta cercando di fare altrettanto con i Kurdi, ed è stata più volte condannata dalla Corte di Giustizia europea, se non mi sbaglio, proprio per la violazione dei diritti umani. L'Italia ha inviato in qualità di osservatori nientedimeno che 400 Carabinieri, dei quali sarei curioso di leggere i rapporti per sapere se lo standard su cui modellano i loro giudizi in materia di diritti umani è quello che hanno fatto vedere a Genova 2001, dal quale non hanno mai preso ufficialmente le distanze. Penso comunque che sarebbe utile avere notizia di che fine facciano questi rapporti perchè provengono pur sempre da una fonte istituzionale. Si tratta dell'unica missione internazionale presente nei territori occupati.
Cerco di saperne di più, ma il funzionario norvegese non ha tempo e mi dice che per dire veramente quello che pensa della situazione, dell'Onu e del TIPH, dovrebbe togliersi prima la divisa della missione internazionale, per sentirsi più libero di parlare.
Visitiamo anche una clinica dove una giovane dottoressa appena saputo che sono italiano mi chiede di Roberto Baggio, ripassiamo un pò di calciatori italiani, poi anche loro ci raccontano delle difficoltà in cui sono costretti a lavorare, delle ambulanze fermate per ore ai check point, delle persone ferite o uccise without reason ai check point. Uno dei dottori che vive nella H2 non può più prendere la macchina, come tutti gli altri palestinesi, ora ci mette un'ora e mezza contro i dieci minuti di prima.
Sulle strade di accesso alla città, gli israeliani hanno messo delle barriere costituite da cumuli di terra sulla strada, che possono essere superato solo a piedi. La prima di queste è a circa 2 km dalla città, la seconda è a ridosso del centro. In mezzo ci sono decine di taxi, che fanno la spola tra le due barriere senz poter uscire da quel tragitto. Sotto la strada palestinese passa la strada che gli israeliani usano per uscire dalla città completamente deserta. Quando usciamo dalla città, il passaggio dei pedoni tra le due barriere viene osservato da vicino da quattro soldati con i fucili spianati, armati come se avessero di fronte dei feroci viet-cong, e non delle casalinghe con i sacchetti della spesa e dei vecchi vestiti della sola jalabeia. Ho chiesto al nostro accompagnatore cosa succede se rimuovono i blocchi: li rimettono, più alti di prima.
Prima di partire, al Medical Relife dimostrano che in quanto ad ospitalità non sono secondi a nessuno, e ci offrono due polli enormi, ripieni di riso e mandorle, conditi con salse di ogni genere, paste alla crema, caffè arabo.
ANCORA GERUSALEMME.
Torniamo a Gerusalemme, la cui città vecchia è divisa nel quartiere musulmano, ebraico, armeno e cristiano. Un crogiuolo di storia e di religioni, l'ombelico del mondo.
Ci dirigiamo verso il quartiere ebraico che attira la nostra curiosità, e saliamo sui tetti del mercato seguendo alcuni degli ebrei ortodossi, quelli cappello-basettoni a boccoli-palandrana nera- barba lunga, per capirci. Giungiamo ad una sinagoga sopraelevata che brulica di questi personaggi. L'effetto è singolare, decine di persone si muovono in continuazione in un ambiente ristretto, mangiando e bevendo, sembrano molto indaffarati, stupisce il silenzio, strano rispetto al livello dell'affollamento. Provo a fermare uno di loro, che se ne sta andando, gli chiedo cosa ci sia lì dentro (non avevo ancora capito che era una sinagoga), lui si gira verso di me, ma il suo sguardo mi passa oltre, non si ferma su di me, scuote la testa con il naso all'insù, come se dovesse cacciare una mosca, e tira via. Proviamo ad interrogare dei bambini dalle lunghe basette che indossano delle camicie a scacchi che non si trovano più in commercio per i comuni mortali da almeno ottantanni. Anche loro non rispondono, ma sono un po' più cordiali, ci guardano comunque stupiti.
Mi dirigo al Santo Sepolcro, dove trovo un'altra sorpresa; una trentina di soldati armati che, disposti in semicerchio, ascoltano quella che sembra essere una loro istruttrice. Subito dopo arrivano altrettanti soldati, che si dispongono anche loro intorno ad un'altra istruttrice, anche loro armati fino ai denti. Sono tutti dentro al piazzale interno alla chiesa ove è seppellito Cristo (così si dice), la provocazione è evidente! Rispondo alla provocazione e mi metto a guardarli incuriosito, da vicino alle spalle dell'istruttrice, poi chiedo ad uno di loro cosa cavolo ci facciano lì, se è successo qualcosa; il contrasto tra il luogo sacro e la parata militare è evidente. Mi risponde che ci fa le stesse cose che faccio io (il turista), che è tutto normale, che stanno imparando qualcosa. Cocciuto come sono, entro in chiesa, e trovo un prete ortodosso, al quale chiedo cosa ne pensi di tutto ciò e se gli faccia piacere tanto sfoggio di potenza militare da parte di soldati che sono tutti ebrei, nell'area interna di una chiesa che è uno dei massimi luoghi di culto di cristiani, ortodossi-cattolici-armeni che siano. Mi dice, con un filo di voce, che è difficile vivere in Israele, che ci sono molte cose sbagliate, che non vanno, che è difficile far valere i propri diritti. Provo molta pena per questo fratino, e mi chiedo come, i cattolici, che sono comunque sempre piuttosto potenti, possano tollerare quello che anche a me che sono un fondamentalista ateo, sembra un oltraggio.
Proseguiamo il nostro percorso, nel quartiere ebraico, ed entriamo quasi per caso in un negozio che reca l'insegna di "Centro Studi", incuriositi da una bacheca ove è esposto in bella mostra un bel modello di tempietto. Non c'è altro nel negozio, che ha evidentemente l'unica funzione di mostrare il modellino. Chiediamo alla persona seduta nella stanza, un ragazzo barba-boccoli-palandrana nera, che tiene avanti a sé la bibbia aperta sul tavolo, di cosa si tratti. Ci dice che è il nuovo tempio che sarà costruito sulla spianata della moschea ove ora si trova la più grande moschea di Gerusalemme, e penso di tutta la Palestina, e ove ogni venerdì si recano a pregare migliaia e migliaia di musulmani. Gli chiediamo che fine farà la moschea attuale e lui come se fosse la cosa più elementare del mondo, ci dice "will be destroyed". Si sviluppa una discussione veramente interessante, con noi sei che cerchiamo di trattenerci dal dare in escandescenze, per comprendere cosa frullasse nella testa di quell'uomo, il cui pensiero, considerato anche l'ufficio pubblico in cui lo abbiamo trovato, probabilmente è comune a quello di molti altri suoi compagni di "studi". Ci dice che loro sono obbligati a fare ciò, che ormai il progetto è pronto, e che non ha alcun dubbio sul fatto che verrà realizzato. Il giorno dopo abbiamo verificato che ai pellegrini ebrei che visitano il muro del pianto vengono distribuiti volantini con il nuovo progetto. Gli chiediamo come pensa che potranno reagire i musulmani, alla distruzione del loro tempio, sottolineando che non ci risulta ci siano mai stati dei conflitti religiosi tra loro e gli ebrei. Non è un problema suo, ma dei musulmani, che se ne vadano a pregare alla Mecca, i paesi di religione musulmana sono anche troppi. Quella è la loro terra, è scritto nell'Holy Book, ed è loro dovere prendersela, con le buone o con le cattive, anche a costo di rovina e distruzione di migliaia di vite. Per loro è una strada obbligata. Gli arabi, anche se vivono lì da secoli e secoli, sono in pratica degli usurpatori, perchè quella terra è la terra destinata a loro (la Terra Promessa, e ogni promessa si sa è debito). Non si sente affatto in conflitto con gli arabi, evidentemente perchè non li considera delle entità con cui è necessario confrontarsi. It's not my problem, è la frase che gli continua a ripetere a tutte le nostre proteste. L'unico conflitto che lo preoccupa, è quello interno alla comunità ebraica, tra quelli che sono di recente immigrazione, e quelli di più lunga permanenza. Gli chiediamo se riterrebbe giusto che gli indiani d'America, che indiscutibilmente sono i legittimi proprietari degli attuali USA, pretendessero di espellere anche a costo di ammazzarli tutti, 200 milioni degli attuali abitanti degli Stati Uniti. It's not my problem. Registriamo filmando per terra, perchè non voleva farsi riprendere durante l'intervista, quasi tutta la conversazione, mi auguro che si riesca a farne un buon uso. Rubiamo anche un volantino con il progetto del Tempio.
Ce ne andiamo disgustati, pensando che la famosa "passeggiata" di Sharon sulla spianata delle moschee, che ha dato il via alla seconda intifada, è stata una cazzata rispetto a quello che potrebbe succedere. Più tardi il nostro albergatore ci dirà che l'ultimo venerdì, durante la preghiera, Gerusalemme è stata sorvolata in continuazione da elicotteri dell'esercito che volavano a bassa quota, con evidente funzione di disturbo e di intimidazione. La mattina successiva ci siamo recati sulla spianata delle moschee, cui si può accedere solo dal muro del pianto, passando 2 check point. Tutti gli altri varchi, chiusi con dei pesanti cancelli di acciaio, sono sorvegliati da 4/5 soldati o poliziotti israeliani. Possibile che la sicurezza della moschea sia protetta dagli stessi israeliani che la vogliono buttare giù? O non è un altro modo di intimidire ed umiliare gli arabi che si recano nel loro luogo di culto, creando sempre più ostacoli all'accesso? Mi chiedo se non sia questione di tempo il ripetersi a Gerusalemme di un massacro quale quello di Hebron del 1994, cui è seguita la confisca della moschea. Questa è impossibile confiscarla, è troppo araba dal punto di vista architettonico; non potrà mai essere spacciata per una sinagoga. Meglio buttarla giù e farne un'altra.

7) MERCOLEDì PRIMO OTTOBRE.
Ultimi giri per Gerusalemme, visitiamo la moschea, finalmente. Splendida.
Uscendo dalla moschea percorriamo la "via dolorosa", ovvero la strada che ha fatto Cristo con la croce sulle spalle (così dicono). Molte delle stazioni della via crucis sono presidiate da militari israeliani. Ci sono molti più militari nel quartiere islamico che in quello ebraico. Alla Porta di Damasco, ingresso alla città vecchia dal quartiere musulmano, ci sono delle vecchie contadine per terra che vendono i prodotti del loro orto, basilico, verdure, raccolte in grossi sacchi di iuta. Si avvicinano tre militari con aria minacciosa, prendono a calci i sacchi, le fanno spostare. Le vecchie non davano fastidio a nessuno, li fotografo, loro si incazzano, mi allontano in fretta.
Partiamo per il confine, diretti ad Amman, da dove partiremo la notte successiva. Prima e dopo il confine, infinita serie di check point, il passaporto entra ed esce dal marsupio in continuazione. Il taxi palestinese arriva alla frontiera e si ferma nel piazzale nello stesso identico posto ove avevamo preso il taxi quando siamo arrivati. Scendiamo con i bagagli, arrivano di corsa due militari israeliani col fucile con la canna alzata, dicono di tutto all'autista, ci costringono a risalire sul taxi. Chiedo spiegazioni, un militare mi dice "he knows the rules", che rules, mi chiedo. Ripartiamo, il taxista che evidentemente queste regole non le conosce, vaga per il piazzale non sapendo dove fermarsi. Viene chiamato da uno dei soldati di prima che muovendo istericamente il braccio con l'indice rivolto a terra, indica dove deve fermarsi. Sono sei metri più avanti di dove si era fermato prima. Quello è il posto giusto per i palestinesi. Passando davanti al militare, che imbraccia sempre il fucile mezzo alzato con entrambe le mani e l'indice sempre disteso sul grilletto, gli bisbiglio coraggiosamente "strange rules". Dopo un'oretta di attesa ai passaporti provo a uscire a prendere una boccata d'aria, vengo ributtato nella stazione dallo stesso militare. Mi piacerebbe che venisse in Italia, disarmato, gli farei un bel discorsetto, qui è impossibile, l'atmosfera intimidatoria contagia anche noi. Vedo uscire un vecchio palestinese, deve andare verso i taxi, viene fatto passare ma è accompagnato da insulti e gesti di disprezzo. L'ultima immagine che mi rimane di Israele, bel posticino.
8) CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE.
Ciò che risalta con evidenza, dalla visione diretta dei territori, è la volontà manifesta degli israeliani di cacciare i palestinesi dai territori.
Non c'è alcuna concreta volontà di pace, da parte loro, quello che si vede è solo ed unicamente una volontà distruttiva, annichilente della realtà palestinese. Devono sparire, o essere rinchiusi in dei recinti privi di mezzi e di risorse, impossibilitati a muoversi e infine costretti ad andarsene. Senza alcun rispetto per la vita umana, e dunque utilizzando quale mezzo alternativo allo sgombero, l'eliminazione fisica di queste fastidiose entità, cui non viene attribuito il valore di essere umano. Tutto quello che abbiamo visto va in questa direzione, così come tutto quello che mi hanno raccontato i palestinesi.
Non c'è nulla nella politica israeliana che faccia pensare che ha intenzione di creare delle zone di rispetto entro cui consentire ai palestinesi una vita dignitosa anche nei minuscoli spazi e territori che vorrebbero recintare con il muro della vergogna. La vita all'interno delle zone murate sarà impossibile, perchè non comunicano con l'esterno e non comunicano tra loro.
Esemplare quello che abbiamo visto ad Hebron, dove è stata devitalizzata una intera città, sembra Genova durante il G8. E i coloni che vivono lì non lo fanno certo perchè ci stanno bene, vivono peggio delle galline, stanno sicuramente meglio i palestinesi.
Sembra che ogni azione della politica israeliana nei territori sia ispirata dai fondamentalisti, come quello con cui abbiamo parlato a Gerusalemme, anche se ci sono segni di risveglio della società civile, come è dimostrato dal recente rifiuto dei 27 piloti, cui è seguito il messaggio di solidarietà di 50 professori universitari.
I palestinesi non sanno più a chi rivolgersi e sostengono a ragione di non avere più alcun interlocutore con cui provare a costruire un percorso di pace.
Il loro obiettivo sarebbe quello di tornare ad una situazione precedente al 1967, che coincide in pratica con quanto stabilito dagli accordi di Oslo; anche elementi più estremisti la pensano così anche perchè contestare l'esistenza dello stato israeliano o pretendere il 50% dei territori, come sancito dalla risoluzioni ONU del 1948 non avrebbe alcun senso.
Israele è uno stato confessionale, chi non è ebreo, ha meno diritti degli altri, il 20% della popolazione israeliana è araba, ma è profondamente discriminata. Il fatto che gli arabi non prestino servizio militare li priva di una serie di diritti e di possibilità che li escludono praticamente dalla partecipazione alla vita politica ed amministrativa. Non credo che esistano impiegati pubblici arabi.
Il razzismo che si respira è palpabile, non solo nei confronti dei musulmani, ma nei confronti di tutti coloro che non sono ebrei.
Più volte abbiamo discusso dei kamikaze, che qui chiamano "martiri", c'è chi li approva, chi no, ma nessuno li condanna apertamente. Ci dicono che è l'unico strumento di difesa praticabile, e che comunque se è vero che colpisce civili, è anche vero che in Israele il militare lo fanno tutti, uomini e donne, e che possono essere richiamati alle armi come riservisti fino a tarda età. I civili in senso proprio, in realtà non esistono in Israele.
Ho chiesto espressamente a chi mi è parso più favorevole ai kamikaze, perchè non si limitano ad attaccare i soldati ai check point, senza usare gli uomini bomba, a fare una guerra più aperta, ho chiesto se i kamikaze siano in qualche modo una scelta precisa, in presenza di alternative praticabili, magari per il gusto di immolarsi per motivi religiosi e diventare "martiri". No, mi hanno risposto, se avessimo tank e fucili ci comporteremmo diversamente, ma abbiamo solo i sassi e le mani nude. Pare che le uniche armi vengano comprate dai militari israeliani stessi che le rubano all'esercito e le rivendono ai palestinesi.
I palestinesi, da soli, sarà ben dura che ce la facciano. Anche le pressioni internazionali lasciano Israele piuttosto indifferente, l'unico alleato che conta, che li foraggia in queste dissennate spese militari e repressive, sono gli USA, loro fedelissimi "compagni di merende".
Esiste comunque un trattato di cooperazione commerciale tra UE ed Israele, che prevede espressamente la sua sospensione in caso di violazione di diritti umani da parte di Israele, e riuscire a bloccarlo, potrebbe già essere un primo passo.
Ai palestinesi, in ogni caso, la solidarietà fa estremamente piacere, e lo dimostra il fatto che siamo sempre stati accolti con la massima considerazione da tutti coloro che abbiamo incontrato, da Barghouti, che mentre lo portavano via a braccia gli agenti dal Tribunale ha trovato il tempo per ringraziarci, ai dottori impegnati nei territori, ai rappresentanti delle associazioni di ogni genere. Buona anche l'idea del servizio civile internazionale nei territori dell'associazione Papa Giovanni XXIII.
Bisogna andare, filmare, raccontare, denunciare, e rompere il muro di omertà e di connivenza che circonda Israele.
Ultima annotazione. Un palestinese la prima cosa che ci ha detto è stata: "volete fare qualcosa per la Palestina? Liberatevi di Berlusconi". E se quando incontrano gli italiani dicono ancora spaghetti, maccheroni, mandolino, mafia e Roberto Baggio, ora iniziano a dire anche "italiani? Berlusconi!" e tirano dritto schifati. Anche noi non ce la passiamo poi così bene...................