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Processo Barghouti
Redazione 8 marzo 2003 17:47
Il processo a Marvan Barghouti è uno dei terreni sui quali si gioca la partita per costruire un reale processo di pace e coesistenza fra Palestina e Israele. Il processo è costantemente monitorato da delegazioni estere e fra queste quella dei Giuristi Democratici. Di seguito il resoconto di alcune udienze e alcuni appelli.

Si è svolta il 3 ottobre 2002 a Tel Aviv la seconda udienza del processo a carico di Marwan Barghouti, arrestato nell'aprile 2002 dall'esercito israeliano nella sua abitazione di Ramallah ed accusato di avere concorso in attività terroristiche contro Israele, anche se in senso tecnico-giuridico le accuse contro di lui non sono state ancora formulate.
L'udienza è stata invece incentrata sui problemi della libertà dell'imputato e della giurisdizione dal momento che Barghouti, membro del Consiglio Legislativo Palestinese, è stato arrestato in violazione degli accordi di Oslo del 1993 che prevedono il riconoscimento da parte di Israele della giurisdizione dell'Autorità palestinese sui suoi territori, anche nel caso di reati che si assumono commessi contro Israele, salva la necessaria collaborazione investigativa.
A ciò si aggiunge il fatto che Barghouti è protetto da immunità parlamentare (per fare un esempio quel che è successo è paragonabile alla ipotesi di un parlamentare italiano catturato dall'esercito di un altro Stato entrato sul nostro territorio per sottoporlo a processo nel paese straniero).
Erano presenti all'udienza delegazioni del Parlamento europeo (GUE), del Parlamento francese e gruppi di giuristi francesi, italiani e spagnoli.
La partecipazione delle delegazioni straniere costituisce, per i palestinesi e per gli israeliani non oltranzisti, un fattore molto importante, in quanto sottolinea gli aspetti internazionali, sia politici che giuridici, del processo. Il clima infuocato che si è registrato nel Palazzo di Giustizia rappresenta dal canto suo un'ulteriore riprova del carattere fortemente politico del processo, peraltro molto carente dal punto di vista delle sue basi giuridiche. La stessa scelta, del tutto arbitraria, di Tel Aviv come sede del processo,rappresenta a sua volta una conferma di tale carattere, che vede lo Stato israeliano in quanto tale procedere contro uno dei più importanti, amati e popolari dirigenti palestinesi. E' molto significativo il fatto che Barghouti sia difeso, oltre che dal brillante avvocato palestinese con cittadinanza israeliana Jawad Boulos,anche da un avvocato ebreo-israeliano, Shamail Leibowitz, la cui presenza nel processo esprime la necessità di un'effettiva conciliazione e coesistenza fra due popoli e due Stati, oggi presente in settori crescenti della società ebreo-israeliana. Il fatto che questa stessa società sia oggi peraltro spaccata in due fronti contrapposti sulla questione cruciale del rapporto con il popolo palestinese è dimostrata dalla furibonda rissa scoppiata tra pacifisti e gruppi contrari al processo di pace e dalle tentate aggressioni subite da Leibowitz, colpevole di avere deciso di difendere un palestinese.
La strategia processuale adottata da Marwan Barghouti e dai suoi difensori è basata sulla negazione della giurisdizione israeliana, per effetto della IV Convenzione di Ginevra (ratificata anche da Israele), degli Accordi di Oslo già citati e della necessità di rispettare la sovranità palestinese.
La IV Convenzione di Ginevra impone infatti una serie di obblighi a Israele in quanto potenza occupante, ripetutamente violati anche in quest'occasione, mentre dagli Accordi di Oslo e da quelli che ne sono scaturiti in seguito emerge senza dubbio un'autonoma e come tale riconosciuta sfera giurisdizionale dell'Autorità palestinese.
Il tentativo di criminalizzare Barghouti , accusato genericamente di essere coinvolto in organizzazioni terroristiche e nel compimento di attentati, risponde alla necessità, sentita dal governo Sharon, di deviare l'attenzione dell'opinione pubblica interna ed internazionale dalla vera causa di fondo della situazione attuale, che è costituita dalla persistente occupazione israeliana dei territori palestinesi, in palese violazione delle norme internazionali e in dispregio delle ripetute risoluzioni ONU.
Significativa appare del resto la circostanza che, incriminando Barghouti, si voglia colpire uno dei dirigenti palestinesi che più si sono adoperati proprio per il dialogo con Israele, da tutti i sondaggi accreditato, sino alla sua cattura, come uno dei possibili successori di Arafat.
La questione della giurisdizione sarà definita all'udienza del 21 novembre, per la quale i giuristi democratici italiani puntano ad organizzare una ulteriore delegazione.
Il problema della illegittimità della detenzione non riguarda solo Barghouti: sono almeno cinquemila(ma il numero è per difetto e varia continuamente) i palestinesi oggi detenuti da Israele in violazione dei più elementari principi della dignità umana e anche da questo punto di vista Marwan Barghouti costituisce un simbolo importante.
Da gli incontri svolti successivamente alla partecipazione all'udienza di Marwan Barghouti (incontri con i difensori di Barghouti, a Ramallah con Fatwa Barghouti, moglie di Marwan e avvocato, con gli avvocati del Centro Palestinese dei diritti umani di Gaza, con il presidente del Bar Association in Ramallah e Gaza) sono infatti scaturite le seguenti significative informazioni: Ci sono migliaia di detenuti palestinesi deportati nelle prigioni israeliane (il numero oscilla da 5.000 a punte di 10.000) dopo essere stati prelevati nei loro territori.
Va precisato che l'art.49 della IV Convenzione di Ginevra vieta alle Potenze occupanti di ricorrere a deportazioni individuali e di massa, attribuendo alle persone sottoposte ad occupazione lo status di persone protette.
Secondo lo statuto della Corte Internazionale Penale tali condotte sarebbero qualificabili come crimini di guerra o contro l'umanità ma, come è noto, Israele non ha comunque aderito. E quindi anche in futuro potrà sottrarsi alla giurisdizione del nuovo organismo internazionale.
Molti di questi detenuti sono sottoposti a detenzione amministrativa, misura applicata sulla base di una sorta di presunzione di pericolosità, a prescindere dalla formulazione di un'accusa, e viene prorogata in modo del tutto arbitrario dall' autorità giurisdizionale israeliana.
Tra i detenuti ci sono centinaia di ragazzi infradiciottenni e decine di donne.
La tortura viene praticata in modo sistematico (l'ospedale di Gaza ospita centinaia di persone rilasciate ma sottoposte a tortura). I sistemi utilizzati vanno dalla privazione del sonno all'immobilità forzata con rumori assordanti nelle orecchie, dal pestaggio continuo al rimanere appesi come nella migliore tradizione medievale.
Le condizioni di vita sono degradanti. Alcuni centri detentivi sono all'aperto, costituiti da tendoni, inesistente l'assistenza sanitaria. Di fatto vengono negati i permessi di visita ai familiari, senza motivo, e ci sono detenuti che non hanno da anni rapporti con familiari e avvocati. La stessa moglie di Barghouti, che è avvocato, dopo un primo colloquio i primi di maggio, non ha più avuto il permesso di visitarlo ed anzi le è stato ordinato di non presenziare al processo. Questo è un aspetto molto importante della repressione e che, riportano gli avvocati, non si era verificato durante la prima Intifada.
Agli avvocati palestinesi è negato il permesso di difendere (e anche visitare in carcere) i propri assistiti davanti alle Corti Militari israeliane (per quelle civili bisogna inoltre avere una speciale abilitazione), ad eccezione di un numero davvero esiguo (4-5 su oltre mille), impossibilitato a far fronte al numero enorme di palestinesi privati della libertà personale.
I palestinesi restano pertanto sprovvisti di ogni tutela, non avendo i mezzi per rivolgersi ad avvocati israeliani. Va precisato, secondo quanto hanno riferito gli avvocati incontrati, che è possibile in Israele celebrare processi senza difensore per reati puniti sino a 10 anni, mentre per quelli con pena superiore è previsto il difensore d'ufficio.
La decisione (forse scontata) sul difetto di giurisdizione di Israele a giudicare Barghouti sarà definita all'udienza del 21 novembre, per la quale i giuristi democratici italiani puntano ad organizzare una ulteriore delegazione.

Avv. Desi Bruno

Processo Barghouti
IL PROCESSO A MARWAN BARGHOUTI, IL PROBLEMA DEI PRIGIONIERI POLITICI
PALESTINESI E LA NECESSITA' DI UNA GIUSTA PACE IN MEDIO ORIENTE
di Fabio Marcelli*

Sommario. 1. Premessa. 2.L'incriminazione di Barghouti 3. Il processo. 4. Obiezioni alla giurisdizione israeliana sulla base del diritto
internazionale. a) IV Convenzione di Ginevra. b) Accordo di Oslo e riconoscimento della sovranità palestinese. c) IV Allegato dell'Accordo ad interim. d)Esercizio del diritto di resistenza. e)Resistenza, sovranità e terrorismo. 5. Il problema dei prigionieri palestinesi più in generale. 6. Conclusioni: la necessità di una pace basata sul rispetto del diritto in
Medio Oriente.

Premessa
Il 14 aprile 2002, nel pieno dell'operazione "Muraglia difensiva", che
vedeva la rioccupazione militare israeliana di varie località palestinesi, veniva catturato da unità speciali israeliane il dirigente palestinese Marwan Barghouti,.
Tale cattura, come pure la conseguente reclusione di Barghouti in vari carceri di massima sicurezza e il processo iniziato il 5 settembre 2002 di fronte a una Corte penale israeliana, pongono vari problemi sul piano del diritto internazionale.
E' interessante constatare come la situazione processuale di Barghouti e l'eventuale difetto di giurisdizione dello Stato di Israele nei suoi confronti siano direttamente connessi con i rapporti esistenti, sul piano internazionale, fra tale Stato e l'Autorità palestinese, ovvero in ultima analisi con lo status attribuito, su tale piano, all'Autorità, da un lato e allo Stato di Israele, dall'altro.
Gli ostacoli eccepiti all'esercizio della giurisdizione penale nei confronti di Barghouti derivano infatti sia dal diritto internazionale generale, con particolare riferimento allo status di Potenza occupante spettante ad Israele e alla soggettività riconosciuta o meno, nell'ambito dell'ordinamento internazionale, all'Autorità palestinese, sia dal particolare tessuto di accordi convenzionali esistenti fra i due soggetti in questione. E' evidente come i due ordini di argomentazione, quello cioè che risulta dal diritto internazionale generale e quello che invece attinge agli
accordi esistenti, si rafforzino mutuamente.
Al tempo stesso l'arresto e la prigionia di Barghouti costituiscono il caso probabilmente più emblematico di una situazione largamente diffusa, che è la
prigionia dei Palestinesi arrestati a migliaia negli ultimi sei mesi, a partire cioè dall'inizio della cosiddetta operazione "Muraglia difensiva".
Anche tale situazione più generale, che riguarda oggi alcune migliaia di persone, va valutata alla luce del diritto internazionale, e in particolare delle norme e standards esistenti in materia di diritto umani.
Un'ulteriore valenza di carattere generale del caso Barghouti deriva poi dalla considerazione che rispetto delle norme di diritto internazionale, sia generale che convenzionale, da un lato, e osservanza delle norme e degli standards in materia di diritti umani, dall'altro, cospirano tutti a
garantire il raggiungimento della pace, mediante la cessazione degli atti di terrorismo di ogni genere, sia imputabile a gruppi organizzati che, a maggior ragione, ad organi statali, e l'individuazione di una soluzione che sia soddisfacente per tutti. La cronaca di questi ultimi dimostra come questo obiettivo, sia pure ancora tragicamente lontano, sia assolutamente
indispensabile, pena il mantenimento dell'attuale situazione di stillicidio di attentati e massacri e insicurezza profonda, le cui vittime principali sono, ovviamente, le popolazioni civili di entrambi gli schieramenti in campo.
La salvaguardia dello status internazionalmente garantito dei leaders
destinati a costruire la pace, sotto la spinta dell'opinione pubblica internazionale che vede con preoccupazione il proliferare di questo pericoloso ed annoso focolaio di guerra e fonte di violazione continua dei
diritti umani, nonché pretesto e causa per azioni terroristiche, costituisce in questo senso una precondizione di grande importanza alla cui soddisfazione vanno finalizzati l'applicazione delle norme giuridiche e gli sforzi dei politici in buona fede.
Prima di addentrarci nell'analisi giuridica, peraltro condotta sommariamente a causa delle dimensioni del presente scritto, occorre premettere una fondamentale considerazione di natura politica: criminalizzare, con l'accusa di gravi atti di terrorismo, un leader riconosciuto, equivale a criminalizzare un intero popolo, cosa che del resto sta avvenendo, con le punizioni collettive inflitte alla popolazione palestinese, le uccisioni spesso indiscriminate e l'arresto e la detenzione arbitraria, in condizioni contrarie alle più elementari esigenze dell'umanità e del diritto, di migliaia di cittadini palestinesi.
Prenderemo in considerazione, nel corso del presente lavoro, la pretesa punitiva formulata dal governo di Tel Aviv e le varie obiezioni formulate all'esercizio della giurisdizione israeliana contro Barghouti.
Successivamente ci occuperemo del problema dei prigionieri palestinesi più
in generale. La parte finale sarà quindi dedicata ad alcune considerazioni sul conflitto israelo-palestinese e le sue possibili soluzioni.
L'incriminazione di Barghouti e l'inizio del processo. Marwan Barghouti è stato accusato dal governo israeliano dell'organizzazione di vari atti di terrorismo, nella sua qualità di segretario generale
dell'organizzazione palestinese Al Fatah e di responsabile dell'organizzazione di autodifesa militante Tanzim.
L'accusa è più precisamente quella di "murder, aiding and abetting murder,
promoting murder, attempted murder, criminal conspiracy, and being an active
member of a terrorist organization" e sarebbe basata su testimonianze di altri "terroristi", nonché su alcuni documenti che gli sarebbero stati confiscati.
L'atto di accusa, formulato dal Procuratore dello Stato il 14 agosto 2002, parte dall'Intifada iniziata alla fine del settembre 2000 definita alla stregua di "violents incidents" i quali "include ongoing and intensive terror activity against Israeli targets, including the execution of suicide
attacks and murderous shooting attacks, as a result of which hundreds of civilians and soldiers of the State of Israel have lost their lives, and hundreds more have been wounded".
Già da queste prime righe dell'Atto di accusa risulta evidente l'intento di associare Intifada e episodi terroristici, a loro volta definiti in modo generico, come inclusivi degli attentati suicidi e delle sparatorie, siano essi diretti verso le Forze armate o verso semplici cittadini israeliani.
L'identificazione di Barghouti come responsabile degli attentati terroristici, in quanto massimo dirigente dell'Intifada costituisce quindi il naturale risultato di questo teorema accusatorio fortemente politicizzato.
Responsabili del compimento degli "Acts of terror", definizione che comprende le attività cui si è fatto riferimento, sono d'altronde, secondo l'Atto d'accusa, la massima organizzazione politica palestinese, che è parte principale dell'OLP, Al Fatah, di cui per l'appunto Barghouti è il
segretario, Tanzim, definita una struttura organizzativa facente capo ad Al Fatah, le Brigate dei Martiri di Al Aqsa, definite come cellule terroristiche facenti capo a Tanzim. Tutte e tre le entità ora nominate vengono qualificate come organizzazioni terroristiche ai sensi dell'Ordinanza sul terrorismo 5708-1948.
La struttura delineata è quindi del tipo a scatole cinesi o a matrjoska:
dentro Al Fatah trovi Tanzim e dentro Tanzim trovi le Brigate dei Martiri di Al Aqsa, ma si tratta in fondo di un'unica struttura. Marwan Barghouti viene definito "the head of the Terrorist Organizations in the Judea and Samaria
area [nome israeliano per la Cisgiordania o West Bank]". Sebbene egli sia "their leader and was a central partner in their decision making" è però "subordinate to Yasser Arafat, who is head of the Terrorist Organizations" (punto 3).
Gli atti terroristici venivano quindi eseguiti in conformità alle scelte politiche generali delle organizzazioni citate, quindi in ultima analisi Al Fatah e l'OLP (che però non viene citata in quanto tale) (punto 4). Ne deriva che le direttive all'organizzazione terroristica vengono impartite, nella ricostruzione effettuata dalla Procura israeliana, da Yasser Arafat, Presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese, il quale però non viene perseguito, per motivi sui quali la requisitoria non si sofferma.
Appare peraltro peculiare il fatto che, se da un lato viene affermato come Barghouti dirigesse, organizzasse ed attuasse ("led, managed and oeprated") le attività terroristiche in conformità alle scelte politiche generali appena menzionate (punto 5), da una più puntuale descrizione contenuta nel paragrafo successivo (punto 6) emerge come il suo ruolo fosse quello di
imporre ai capi delle unità terroristiche (Field Commanders) determinate tregue allo svolgimento delle loro attività. In altri termini Barghouti interveniva non tanto per ordinare il compimento degli attentati quanto per imporne la cessazione. La frase che segue appare un capolavoro di
contorcimento dialettico e vale quindi la pena di riportarla per intero: "The end result of that pattern of activity was that during the Relevant Period for the Indictment, since no explicit order was given by the Defendant to halt the Acts of Terror, the Commanders and their subordinate Terror Activists continued to carry out Acts of Terror in accordance with
the policy of the leadership of the Terrorist Organizations throughout the entire period, as detailed above". Non risulta peraltro neanche che Barghouti avesse dato una sorta di ordine iniziale relativo al compimento delle attività terroristiche in questione.
Pare quindi, ai sensi di questo passo, che la responsabilità di Barghouti sia piuttosto quella per omissione, essersi astenuto dall'impartire ordini di cessazione degli attentati in determinate circostanze, il che configura un modus operandi invero assai inedito per un'organizzazione terroristica....
Altre imputazioni sono poi quelle, di aver compiuto una serie di attività di contorno ("the Defendant and his subordinates carried out a series of actions that caused, promoted and enabled the implementation of the Acts of Terror") (punto 7) e di essere consapevole e informato delle attività terroristiche (punto 8).
Fatti specifici su cui l'Atto si sofferma sono d'altronde solo l'attacco al ristorante "Sea food market" di Tel Aviv, del 5 marzo 2002 e quello all'Università ebraica Mont Scopus di Gerusalemme del giugno 2001. Si tratta
di episodi tutto sommato secondari nei quali il ruolo di Barghouti, secondo lo stesso Atto d'accusa, fu del tutto marginale.
Quanto al primo, infatti, conclusosi con la morte dell'attentatore e di tre Israeliani da lui pugnalati, Barghouti avrebbe detto per telefono a uno dei presunti ideatori dell'attacco di avere appreso dell'attentato dalla televisione e gli avrebbe chiesto di consultarsi con lui prima di redigere il comunicato di rivendicazione (punto 8).
Quanto al secondo, che provocò l'uccisione di un monaco greco-ortodosso, ci sarebbe la testimonianza di uno degli attentatori, secondo la quale Barghouti gli avrebbe detto che era pronto a procurargli armi per
l'esecuzione di attacchi contro soldati e coloni (punto 9).
Più genericamente, Barghouti viene accusato di avere organizzato attività di
addestramento militare (punto 10), acquisto di armi (punto 11), finanziamento (punto 12) e istigazione mediante "discorsi incendiari" (punto 13). In un caso menzionato nel punto relativo all'acquisto di armi, Barghouti viene accusato di aver approvato un attacco, "purché non si svolgesse su territorio israeliano" (punto 11.C).
Un Atto di accusa, come si vede, nel quale la forte povertà di addebiti concreti e motivati si abbina a evidenti contraddizioni logiche, sotto l'egida di una volontà politica di fondo che è quella di criminalizzare le
organizzazioni fortemente rappresentative del popolo palestinese, nella specie Al Fatah, componente maggioritaria dell'OLP, rendendole responsabili, per un verso o per un altro, ma in modo mai diretto, di taluni atti terroristici.

Il processo
Il processo è iniziato il 5 settembre, davanti a un collegio composto da tre giudici; il 3 ottobre si è aperta invece, davanti a un solo giudice, la procedura relativa alla richiesta di messa in libertà dell'imputato; il giudice in questione dovrà decidere, probabilmente il 21 novembre 2002, sulla questione pregiudiziale della giurisdizione.
All'udienza del 3 ottobre hanno partecipato varie delegazioni di osservatori internazionali: una del Parlamento europeo (Morgantini, Krivine, Boumedienne, Wurtz), una del Parlamento francese e una di avvocati e giuristi provenienti da Francia, Italia e Spagna. Di quest'ultima facevano parte, in rappresentanza del Coordinamento dei giuristi democratici e
dell'Associazione internazionale dei giuristi democratici, il sottoscritto e l'avvocata Desi Bruno del Foro di Bologna.
La presenza di osservatori internazionali, che verrà replicata all'udienza del 21 novembre, è stata particolarmente opportuna, evidenziando il carattere politico delle accuse, la sostanza internazionale della questione che ne è alla base, nonché sottolineando alcuni aspetti di dubbia legittimità del processo dal punto di vista del diritto internazionale.
Intento degli avvocati di Barghouti, il palestinese con cittadinanza israeliana Jawad Boulos e l'israeliano Shama'il Leibowitz, nipote di un apprezzato e raffinato biblista, è quello di abbandonare il processo qualora alla prossima udienza del 21 novembre, venisse affermata la giurisdizione israeliana. Marwan Barghouti continuerebbe quindi a difendersi da solo, il
che gli è peraltro consentito dall'ordinamento israeliano.
Va aggiunto che l'atmosfera nella quale si è svolta l'udienza del 3 ottobre, alla quale abbiamo assistito, è stata particolarmente incandescente per gli scontri che, quasi fin dentro l'aula, hanno opposto gruppi di israeliani pacifisti e favorevoli al dialogo con l'Autorità palestinese ed altri oltranzisti contrari al processo di pace, fra i quali alcuni parenti delle vittime degli attentati.
Altro fatto che suscita perplessità sull'effettiva imparzialità dei giudici e sul clima generale di forte politicizzazione nel quale si svolge il processo è la presenza viva ed operante del Governo Sharon che ha
addirittura svolto una conferenza stampa nei locali del tribunale subito dopo l'udienza, mentre l'avvocato Shama'il Leibowitz veniva aggredito da un gruppo di ultras che tentava di malmenarlo.


4. Obiezioni alla giurisdizione israeliana sulla base del diritto internazionale
Varie sono le obiezioni che possono essere sollevate all'esercizio della giurisdizione israeliana nei confronti di Marwan Barghouti. Esse risultano basate sulla IV Convenzione di Ginevra relativa al trattamento dei territori occupati, sull'Accordo di Oslo e il riconoscimento della sovranità palestinese da parte di Israele, sull'inosservanza delle procedure previste
dal IV Allegato dell'Accordo ad interim fra Israele ed Autorità palestinese e sull'esercizio del diritto di resistenza spettante ai popoli oggetto di occupazione e repressione militare. Vediamole partitamente.
IV Convenzione di Ginevra
Entra in considerazione in primo luogo l'art. 49 di tale Convenzione che pone un divieto imperativo e inderogabile dei trasferimenti forzati collettivi o individuali dal territorio occupato in quello della Potenza occupante. Il testo francese di tale disposizione proibisce "les transferts forcés en masse ou individuels, ainsi que la déportation de personnes protégées hors du territoire occupé dans le territoire de la Puissance
occupante ou dans celui de tout autre Etat, occupé ou non, quel qu'en soit le motif".
Vale la pena tuttavia di ricordare, a tale riguardo, che lo Stato di Israele pur avendo firmato le Convenzioni di Ginevra, ha in genere sempre negato l'applicabilità della IV Convenzione ai territori palestinesi. Il
ragionamento seguito dalle autorità israeliane, appare basato sulla considerazione che i territori palestinesi costituirebbero una sorta di terra nullius, non risultando attribuibili ad alcun altro Stato e quindi non possono essere considerati neanche alla stregua di territori occupati.
Si tratta peraltro di posizione alquanto discutibile, alla luce di una prassi abbastanza conseguente delle Nazioni Unite, compreso il Consiglio di Sicurezza. Ricordiamo le risoluzioni 237 del 14 giugno 1967, 446 del 22 marzo 1979, 681 del 20 dicembre 1990, e 694 del 24 maggio 1991. Quest'ultima ha dichiarato, in particolare, "que l'action des autorités israéliennes de déporter [...] 4 Palestiniens est en violation de la Ive Convention de Genève de 1949 applicable sur l'ensemble des territoires palestiniens occupés par
Israel depuis 1949, y compris Jérusalem".
Ricordiamo inoltre la risoluzione 641 del 30 agosto 1989 la quale ha affermato, in termini più generali, "que la Convention de Genève relative à la protection des civils en temps de guerre est applicable aux territoires palestiniens, occupés par Israël depuis 1967, y compris Jérusalem et les
autres territoires arabes occupés."
Da ultimo la Conferenza delle Alti Parti Contraenti della Quarta Convenzione di Ginevra, svoltasi a Ginevra il 5 dicembre 2001, ha riaffermato l'applicabilità di tale Convenzione ai territori palestinesi occupati,
compresa Gerusalemme Est, reiterando quindi la necessità del pieno rispetto delle sue disposizioni in tale ambito. Il punto 13 della Dichiarazione invita le Potenze occupante ad astenersi in modo particolare dalle attività elencate nell'art. 147 della Convenzione, tra le quali trovano spazio
killing, torture, unlawful deportation, wilful depriving of the rights of fair and regular trial".



Accordo di Oslo e riconoscimento della sovranità palestinese
La Dichiarazione di principi firmata a Washington il 13 settembre 1993 e lo
Scambio di note che l'ha preceduta, note come "Accordi di Oslo" per il ruolo davvero determinante svolto dal governo norvegese nel complesso negoziato che le ha precedute, sembravano, nove anni or sono, poter aprire la strada a una soluzione pacifica del conflitto tra Israeliani e Palestinesi che da più di cinquanta anni stava insanguinando la regione medio-orientale.
Va qui sottolineato come, nello Scambio di note che ha preceduto la firma della Dichiarazione di principi, mentre da un lato l'OLP "riconosceva il diritto dello Stato di Israele a vivere in pace ed in sicurezza",
rinunciando al terrorismo e ad altri atti di violenza, dall'altro il Governo di Israele decideva di riconoscere l'OLP "come rappresentante del popolo palestinese e di cominciare i negoziati con l'OLP nell'ambito dei processi di pace per il Medio Oriente".
La Dichiarazione di principi, dal canto suo, conteneva il seguente fondamentale passaggio: "the Parties recognize their mutual legitimate and political rights and strive to live in peaceful coexistence and mutual dignity and security and achieve a just, lasting and comprehensive peace
settlement and historic reconciliation through the agreed political process"

Bisogna ammettere che sia lo Scambio di Note che la Dichiarazione appartengono al genus degli accordi internazionali, accogliendo la definizione di questi ultimi che è contenuta nell'art. 2, lett. A, della
Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati: "l'espressione 'trattato' significa un accordo internazionale concluso per iscritto tra Stati e disciplinato dal diritto internazionale, contenuto sia in unico
strumento sia in due o più strumenti connessi, e quale che ne sia la particolare denominazione", tenendo presente fra l'altro che, ai sensi dell'art. 3, par. 1, della stessa Convenzione, "le fait que la présente
Convention ne s'applique ni aux accords internationaux conclus entre des Etats et d'autres sujets de droit international ou entre ces autres sujets de droit international...ne porte pas atteinte: a) à la valeur juridique de tels accords; b) à l'application à ces accords de toutes règles énoncées dans la présente Convention auxquelles ils seraient soumis en vertu du droit international indépendamment de ladite Convention".
E' infatti il caso di rammentare che l'OLP non costituiva uno Stato, pur essendo invece un soggetto internazionale di diversa natura, del genere "movimento di liberazione" come cerco di dimostrare nel mio scritto; essa è stata peraltro sostituita, nel frattempo, dall'Autorità nazionale
palestinese che, anche per effetto della legittimazione democratica conferitale dalle elezioni democratiche svoltesi in Cisgiordania e a Gaza e a seguito dell'esercizio di veri e propri poteri di governo in quei territori, rappresenta invece quantomeno "uno Stato in formazione".
Ne deriva l'obbligo di Israele di rispettare l'organizzazione di governo dell'ANP, della quale fa parte indubbiamente, con un ruolo di primo piano, Marwan Barghouti. L'arresto (o meglio il rapimento) di quest'ultimo, la sua detenzione e la sua sottoposizione a processo costituiscono quindi una violazione di tale obbligo.
Vale la pena di insistere sul fatto che la necessità di rispettare la sovranità palestinese non deriva da un riconoscimento unilaterale israeliano
che pure ha contribuito in questo senso, ma si basa su un accertamento compiuto ai sensi del diritto internazionale generale.

IV Allegato dell'Accordo ad interim
I dubbi sulla natura giuridica e l'efficacia, affacciati a proposito degli Accordi di Oslo, hanno ancora meno ragione di essere a proposito degli atti che si sono susseguiti a tali Accordi e che hanno regolamentato nel
dettaglio i rapporti fra Israele e Autorità nazionale palestinese in una serie di campi, avendo come obiettivo il conseguimento di un'effettiva capacità di autoamministrazione da parte dell'entità palestinese, nella prospettiva, indubbia e fatta propria dall'insieme della comunità
internazionale nonché dalle parti al conflitto, della costruzione dello Stato palestinese indipendente e sovrano.
E' quindi importante sottolineare, riguardo a questi accordi, che il ripudio politico pure in alcuni casi espresso dall'attuale governo israeliano non può in alcun caso determinare in alcun caso il venir meno della loro efficacia giuridica, che dovrebbe ritenersi superiore a quello della legislazione statale.
Ci riferiamo in particolare all'Accordo cosiddetto ad interim (Israeli-Palestinian Interim Agreement on the West Bank and the Gaza Strip"), firmato a Washington il 28 settembre 1995, destinato a disciplinare il
trasferimento dei poteri fra le autorità israeliane e quelle palestinesi.
Il Capitolo 3 e l'Allegato IV di tale Accordo riguardano le questioni legali L'art. 1 dell'Allegato IV disciplina in particolare la giurisdizione penale.
Non essendo qui possibile una disamina approfondita delle questioni poste da tale Accordo ci limiteremo ad indicare che tale articolo attribuisce in linea di massima la giurisdizione per tutte le attività compiute nei territori alla giurisdizione palestinese (punto 1, lett. a: "The criminal jurisdiction of the Council covers all offenses committed by Palestinians and/or non-Israelis in the territori, subject to the provisions of this artiche") stabilendo invece la giurisdizione israeliana per i crimini
commessi fuori dei territori o da Israeliani nei territori (punto 2), stabilendo peraltro, al successivo art. 2, il principio della cooperazione fra le due Parti negli affari penali.
Cruciale appare, nella fattispecie, il punto 7, lett. b, a norma del quale "where an individual suspected of, charged with, or convicted of, an offense that falls within Israeli criminal jurisdiction, is present in the Territory Israel may request the Council to arrest and transfer the individual to Israel", procedura evidentemente del tutto diversa da quella di fatto seguita nel caso in esame.
La disposizione appena citata è stata del resto violata, su di un piano più generale, dall'Ordinanza militare 1500 del 29 marzo 2002, adottata proprio all'inizio dell'operazione "Muraglia difensiva", che dà ai soldati e poliziotti israeliani il potere di arrestare qualunque Palestinese per ragioni di sicurezza.

Esercizio del diritto di resistenza
Abbiamo ricordato come i territori palestinesi destinati all'Amministrazione
dell'Autorità Nazionale Palestinese siano stati rioccupati con la forza, a più riprese, dalle forze armate israeliane, che in più di un'occasione, a partire dallo scoppio della seconda Intifada (settembre 2000) hanno
proceduto alla distruzione di edifici pubblici e privati e all'uccisione di un grande quantitativo di Palestinesi fra cui molti civili inermi e in particolare bambini.
Per dirla con il giornalista e studioso israeliano Zvi Schuldiner, "[s]e all'inizio qualcuno poteva pensare che dei militari avessero 'perso il controllo', ora è chiaro: non si è trattato di saccheggi occasionali, di
uccisioni per errore. Gli 'errori' si ripetono e i morti innocenti si accumulano. I soldati e i loro ufficiali si sono accaniti contro istituzioni
e individui e hanno seminato devastazione ovunque".
Bisogna tuttavia compiere a questo punto qualche passo indietro nella storia della tormentata regione di cui si parla. La legittimità della lotta del popolo palestinese per la sua autodeterminazione fu riconosciuta dall'Assemblea generale sin dalla sua risoluzione 2787-XXVI, risoluzione che un'autorevole dottrina ha ritenuto decisiva anche in ordine alla questione
della classificazione di tale lotta come guerra di liberazione nazionale.
Ricordiamo come, sempre secondo Ronzitti, la guerra di liberazione nazionale veda come parti in conflitto "a people lacking State identity but organised within the framework of the liberation movement, and the incumbent government". Lo scopo di tale guerra è d'altronde "the fulfilment of the principle of self-determination", e quindi la realizzazione di un obiettivo che appare in piena conformità all'ordinamento internazionale.
Lo sviluppo del diritto umanitario bellico a partire dal secondo dopoguerra ha avuto ad oggetto, in particolare, anche la condizione dei combattenti appartenenti ai movimenti di liberazione nazionale. Il primo Protocollo
aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra ha, in continuità con queste, renforcé la protection des belligérants qui se battent sur leur propre territoire, contre un envahisseur; l'article 44 a consacré le principe de la défense populaire, abolissant la distinction entre combattants dits 'reguliers' et 'irréguliers' ou encore 'légitimes' et 'illégitimes'".
Vero è che Israele non ha mai ratificato questo Protocollo, ma alcune delle norme in esso contenute sembrano essere dotate di un'efficacia che va al di là della mera sfera dei contraenti, rivestendo per certi aspetti addirittura il carattere di diritto imperativo (jus cogens), proprio in virtù del
collegamento con un principio assolutamente cogente come quello di
autodeterminazione, per di più in un contesto, come quello del conflitto israelo-palestinese nel quale tale principio assume nettezza senza pari e valore incontrastabile.
Anche gli Accordi di Oslo, con il menzionato riconoscimento della contraparte palestinese da parte di Israele, militano in questa direzione, sottolineando la necessità della soddisfazione del diritto
all'autodeterminazione del popolo palestinese, cui sicuramente si accompagna
anche quello, altrettanto importante, della salvaguardia della libera e tranquilla esistenza dello Stato di Israele.
E' bensì vero che l'OLP ha rinunciato non solo al terrorismo ma anche ad ogni forma di violenza, ma è pur vero che tale rinuncia appare evidentemente condizionata alla cessazione di forme di repressione armata indiscriminata da parte di Israele, che equivalgono ovviamente alla negazione della concessione da parte dello Stato di Israele, con il ritiro delle sue Forze armate dai territori occupati, di un'autonoma e incontrastata sfera di governo all'Autorità palestinese.
Tale ritiro viene attuato in modo graduale, ma non sono consentiti, nella logica inaugurata dagli Accordi di Oslo, ritorni indietro sulla strada dell'occupazione militare. Qualora ciò, come purtroppo è ora sotto gli occhi di tutti, avvenga, si riapre per i Palestinesi la possibilità dell'esercizio del diritto di resistenza.
Data la rilevata natura dell'entità palestinese, di Stato in formazione, a metà strada fra il movimento di liberazione e lo Stato sovrano, tale diritto parteciperà di una duplice natura: da un lato quella della violenza legittima propria della guerra di liberazione nazionale, dall'altro quella della legittima difesa con la quale, ai sensi dell'art. 51 della Carta delle Nazioni Unite, ogni entità sovrana può legittimamente reagire con la forza ai tentativi di occupare il proprio territorio.
Quello che importa in ultima analisi mettere in evidenza è come, per effetto
delle ripetute e concordanti prese di posizione delle organizzazioni internazionali, in primo luogo le Nazioni Unite, da una parte, e del processo negoziale avviato fra le Parti che ha prodotto una serie di accordi a partire da quelli cosiddetti di Oslo, si sia verificata, in modo irreversibile, un'equiparazione fra le Parti stesse, che costituiscono entrambi, sia pure con proprie peculiarità, soggetti operanti a pieno titolo sul piano dell'ordinamento internazionale.
Data tale posizione, che spetta in particolare all'Autorità palestinese, costituisce un crimine internazionale, sub specie di aggressione, il ricorso alla forza contro la popolazione, il territorio e gli organi di governo palestinesi da parte dello Stato israeliano, salve le altre fattispecie
criminali internazionali consistenti in commissione di atti di genocidio e/o
violazioni massicce dei diritti umani e/o crimini di guerra.

Resistenza e terrorismo
E' sempre più forte e maturo l'intento della comunità internazionale di prevenire atti indiscriminati di terrorismo, come quelli compiuti, per rifarsi ad episodi di cui sono state vittime da un lato la principale
potenza mondiale e a quella che fino a qualche anno fa era la sua comprimaria-antagonista, l'11 settembre 2001 contro le Torri gemelle ed altri simboli del potere statunitense, e più di recente, il 24 ottobre 2002, con il sequestro di svariate centinaia di persone da parte di un commando di
terroristi ceceni in un teatro moscovita.
E' del pari evidente come siano finora naufragati i tentativi di stabilire in modo chiaro i contorni normativi della nozione di terrorismo e di atti di terrorismo. La chiara definizione di ciò che costituisce terrorismo è
peraltro un necessario prerequisito della lotta a tutti i livelli, giudiziario, ma anche di intelligence e militare, per sconfiggere il
terrorismo. In mancanza di una tale definizione, invece, quello di terrorismo" si rivela un pretesto buono per tutti gli usi, in particolare per colpire oppositori pericolosi o per piegare la resistenza di interi popoli di fronte all'oppressione. Questo spiega perché taluni Stati, primi fra tutti gli stessi USA, si siano sempre dichiarati contrari a una definizione puntuale di terrorismo e atto terroristico.
Tornando al caso in esame, appare in particolare indispensabile porre un limite invalicabile fra "terrorismo" da un lato e "resistenza" dall'altro.
Si tratta di operazione tutto sommato non difficile, tenendo conto innanzitutto del luogo dove si svolgono le azioni, delle loro modalità e dell'obiettivo contro il quale esse sono indirizzate.
Per altri versi va identificato il proprium del terrorismo, che è la sua finalità di terrorizzare, attraverso un uso generalizzato e indiscriminato della violenza, la popolazione civile.Partendo da questo elemento distintivo appare abbastanza consequenziale includere nel fenomeno non solo attività svolte da gruppi od organizzazioni, ma anche quelle svolte da organi statali come ad esempio i bombardamenti aerei o di artiglieria che le Forze armate statunitensi hanno eseguito in Afghanistan o quelle israeliane in
Cisgiordania e Gaza, attività che pure i media classificano a volte fra le reazioni al terrorismo. Il terrorismo, in altri termini, può anche essere, anzi il più delle volte è, "terrorismo di Stato", come ci insegna la storia.
Non pare dubbio, per altri versi, che siano da considerare oltre che atti di terrorismo, anche crimini contro l'umanità, come proposto da Human Rights Watch, gli attentati suicidi compiuti da alcune organizzazioni fondamentaliste palestinesi, in particolare Hamas, sul territorio israeliano
In effetti, la considerazione degli atti di terrorismo come crimini contro l'umanità, stabilendo un nesso biunivoco fra le due categorie di atti, rappresenterebbe senza dubbio un contributo importante alla migliore definizione del terrorismo e quindi alla sua repressione, che diverrebbe
attuabile anche mediante la Corte penale internazionale.

Sovranità e crimini internazionali
Un altro problema di carattere generale evocato dalla vicenda del processo Barghouti è poi quello dei limiti della tutela da concedere agli Stati e alle entità sovrane in genere.
Si tratta di una questione di grande attualità sulla quale il moto della prassi internazionale appare ancora eccessivamente pendolare, passando
dall'importante pronuncia della Camera dei Lords contro Pinochet alla per certi versi deludenti sentenza della Corte internazionale di giustizia nel caso Belgio contro Repubblica democratica del Congo.
Non è del resto la prima volta che dal conflitto fra Israele e Palestinesi emergono elementi di riflessione relativi a questo aspetto. Basti pensare alla recente incriminazione di Sharon da parte di un tribunale belga, che ha dato vita a un procedimento penale al momento sospeso dalla Cassazione, in virtù di un'interpretazione discutibile di un articolo del Codice di procedura penale.
L'insegnamento da trarre da queste vicende deve essere, per i giuristi davvero sensibili alla causa dei diritti umani, quello di dare la precedenza alla punizione dei crimini contro l'umanità alla tutela della sovranità statale.
Ariel Sharon, ricordiamo, è stato incriminato dalla giustizia penale belga, sulla base della legge relativa alla giurisdizione universale, per aver collaborato al massacro svoltosi l'11 dicembre 1982 nei campi di Sabra e Chatila, nei quali, con la complicità di Tsahal (le forze armate israeliane) penetrarono gruppi di assassini inquadrati nelle Falangi libanesi che
macellarono indisturbati vecchie, donne e bambini per alcuni giorni di seguito.
Davanti a fatti di questa natura non ha senso invocare le prerogative statuali. Se Marwan Barghouti, venisse in ipotesi riconosciuto colpevole di fatti di questa natura portata, quali peraltro non ne figurano neanche nell'ipotesi accusatoria formulata dal Procuratore dello Stato di Israele, non avrebbe senso invocare immunità sovrane e neanche la scriminante
relativa al diritto di resistenza. Si porrebbe peraltro in ogni caso la strutturazione di sedi giudiziarie idonee dal punto di vista della loro imparzialità, quali ad esempio la Corte penale internazionale in via di
strutturazione.

5.Il problema dei prigionieri palestinesi più in generale
Marwan Barghouti costituisce il caso più noto, ma sono alcune migliaia (il numero varia in continuazione) i Palestinesi prigionieri di Israele a partire dall'inizio della seconda Intifada. Il problema ha assunto un'importanza tale da indurre l'Autorità nazionale palestinese a istituire
un apposito ministero dotato di competenza in materia.
Non v'è dubbio che la detenzione arbitraria di una tale quantità di persone, gettate in campi di concentramento e costrette a passare lunghi periodi in condizioni disumane, rappresenti una grave violazione del diritto internazionale.
La Conferenza internazionale di giuristi svoltasi al Cairo il 6 agosto 2002 su convocazione dell'Associazione internazionale dei giuristi democratici e
dell'Associazione dei giuristi arabi, ha sottolineato come in particolare tale situazione costituisca una violazione del divieto di punizioni collettive e misure di intimidazione, previsto dall'art. 33 della Quarta Convenzione di Ginevra, nonché, su di un piano più generale, dell'art. 9 del
Patto internazionale sui diritti civili e politici, ratificato da Israele, che prevede la tutela dagli arresti arbitrari e il diritto al giusto
processo.
Un problema che si pone alle organizzazioni internazionali degli avvocati è
quello di garantire l'assistenza legale ai prigionieri palestinesi, impossibilitati a riceverla da parte degli avvocati palestinesi, soggetti a loro volta a una dura repressione.

6.Conclusioni: la necessità di una pace basata sul rispetto del diritto in Medio Oriente.
Sempre più forte è la consapevolezza, sul piano internazionale, del nesso forte e diretto esistente fra pace, rispetto dei diritti umani e costruzione dello Stato di diritto. Quest'ultimo fattore, in particolare, riveste
un'importanza fondamentale con particolare riguardo alla situazione del
mondo arabo e in particolare dei territori palestinesi, dove la sua crescita appare ostacolata da numerose cause, prima fra tutte l'illegittima occupazione da parte delle Forze armate israeliane.
La ripresa dell'occupazione israeliana dei territori palestinesi ha provocato fra l'altro la completa paralisi dei tribunali palestinesi,
impedendo l'instaurazione e il funzionamento di un essenziale elemento dello Stato di diritto.
Questo obiettivo è stato raggiunto con le distruzioni materiali, da un lato, e gli impedimenti quotidiani alla libera circolazione di avvocati, giudici, pubblici ministeri e impiegati della giustizia, dall'altro.
Da un rapporto redatto dagli Ordini degli avvocati in Cisgiordania e a Gaza, risulta che "Courts' sites in Jenin, Nablus, Qalqeliah, Tulkarem and Ramallah were also broken into, their contents were destroyed and their forniture and files were stolen by the occupation army. Judges, prosecutors and lawyers are not able to reach their courts to exercise their duties
because of roadblocks, closures and continual siege around the Palestinian
cities, towns, villages and camps. Furthermore, courts' resolutions can't be
carried out due to the daily crimes committed by the Israeli occupation against the Palestinian".
Singoli giudici, avvocati e pubblici ministeri sono sottoposti a ripetute umiliazioni, che non giovano certo al prestigio delle istituzioni giudiziarie palestinesi e che rappresentano anche una violazione dei diritti umani di queste importanti categorie di operatori della giustizia.
Secondo il Rapporto appena citato, "Judges, prosecutors and lawyers are
forced to stand for long hours before roadblocks to undergo a long process of humiliation, frisking, beating and detention. The judge Mohammed Al-Hroub
for example, was detained and released after being beaten and humiliated.
Some of the advocates who undervent the same conditions of humiliation, frisking, beating and detention are: Mohammed Mousa Salama, Mousa Alkurdi, Raed Al-Abouh, Maher Basheer".
Per un verso questi maltrattamenti sono un aspetto di una situazione più generale dell'intero popolo palestinese, per altri, tuttavia, non può escludersi una particolare volontà punitiva delle autorità israeliane, o
anche solo di singoli graduati e soldati, che intendono, umiliando gli operatori della giustizia, frustrare la volontà palestinese di ottenere uno Stato indipendente e istituzioni autonome funzionanti secondo le regole dello Stato di diritto.
Va considerato, a tale proposito, come gli avvocati palestinesi in esercizio siano 1170, 800 dei quali operano nella West Bank e 370 a Gaza. Si aggiungano 429 praticanti, 300 dei quali nella West Bank e 129 a Gaza. Il 30% degli uffici legali situati nelle principali località della West Ban (Ramallah, Jenin, Betlemme, Nablus, Tulkarem ed Hebron) sono stati devastati dall'esercito israeliano, in alcuni casi con la distruzione pura e semplice, in altri con atti di vandalismo o addirittura il furto di somme di denaro.
La situazione appena evocata conduce ovviamente all'impossibilità per gli avvocati di esercitare la propria professione. Di conseguenza il 70% degli avvocati non può far fronte ai costi degli uffici, mentre il reddito mensile medio è sceso da 800 a circa 200 dollari statunitensi. Il 60% degli avvocati palestinesi non ha potuto neanche versare le quote annuali agli Ordini.
Agli avvocati palestinesi viene inoltre negata la possibilità di difendere i detenuti, che non possono quindi difendere in qualche modo i propri diritti, già fortemente menomati dalla legislazione eccezionale israeliana.
Si tratta di una situazione di grave violazione dei diritti umani e dei più elementari canoni del diritto, sulla quale occorre richiamare l'attenzione di chiunque sia realmente e sinceramente interessato alla pace e a una lotta intransigente contro ogni forma di terrorismo. Questo specie nella considerazione della fondamentale importanza dello Stato di diritto per il
raggiungimento della pace e la prevenzione di ogni forma di terrorismo.

Appello per Barghouti - settembre 2003
" Appello per l'assoluzione e la liberazione immediata di Marwan Barghouti"

Marwan Barghouti, leader di Al Fatah per la Cisgiordania, membro del
Parlamento paletsinese e uno degli autori degli Accordi di pace di Oslo, è
stato rapito nell'aprile 2002 dalle Forze armate israeliane ed è attualmente
sottoposto a processo penale a Tel Aviv con accuse di terrorismo e altri
gravi crimini.
Siamo profondamente convinti, sulla base dei rapporti degli osservatori e
dei giuristi internazionali che hanno assistito alle varie fasi del processo
che tali accuse manchino di ogni base di fatto. Si tratta quindi di un
processo puramente politico. Barghouti viene processato in quanto si tratta
di uno dei leader palestinesi più popolari ed importanti.
Ciò è confermato fra l'altro dal fatto che la Procura israeliana ha
dichiarato in varie occasioni che egli è un terrorista; tali dichiarazioni
costituiscono la prova di un grave pregiudizio nei suoi confronti. Pertanto
il giudizio appare sprovvisto di ogni obiettività.
Inoltre la detenzione e il processo a Barghouti appaiono in flagrante
contraddizione con varie norme di diritto internazionale, contenute, fra l
altro, nella IV Convenzione di Ginevra del 1949 e negli accordi fra Israele
e Palestina.
Ciò nonostante noi esprimiamo il nostro forte auspicio che la Corte
israeliana non si renda complice del piano di criminalizzazione di Barghouti
la cui realizzazione ovviamente nuocerebbe alla pace e al rispetto dei
principi dello Stato di diritto nell'area.
Chiediamo quindi con urgenza la piena assoluzione e l'immediata liberazione
del leader palestinese, il cui ruolo di costruttore di pace è stato
confermato anche dai recenti negoziati nel quadro della road-map.

Coordinamento Nazionale dei Giuristi Democratici

Prime adesioni:
Figueiredo, Ilda (GUE, PCP, P)
Francis Wurtz (Président du groupe GUE, PCF, FR)
Joaquim Miranda (GUE, Président de la Commission Dévéloppement, PCP, P)
Giuseppe Di Lello, Luigi Vinci, Luisa Morgantini (GUE,PRC, I)
Arlette Laguiller, Armonie Bordes, Chantal Cauquil (GUE, LO, FR)
André Brie (GUE, PDS, D)
Roseline Vachetta, Alain Krivine (GUE, LCR, FR)
Alexandros Alavanos (GUE, Synaspismos, GR)
Konstantinos Alyssandrakis (GUE, KKE, GR)
Sylviane Ainardi (GUE, PCF, FR)
Yasmine Boudjenah (GUE, PCF, FR)
Delegazione europea 28-30 settembre 2003
Rapporto della delegazione europea dei giuristi in Israele e Palestina (28-30 settembre 2003)

La delegazione europea era formata dal primo ricercatore in diritto internazionale e membro del Consiglio di amministrazione dell'Associazione europea per la democrazia e i diritti umani nel mondo, Fabio Marcelli, dall'avvocata Desi Bruno, anch'essa membro del Consiglio di amministrazione di tale Associazione, dall'avvocata Tecla Faranda e dall'avvocato Vainer Burani. A Ramallah si sono aggiunti alla delegazione anche gli avvocati Dario Rossi e Federico Micali, che hanno partecipato alla delegazione al processo Barghouti il giorno seguente.

Il primo giorno (28 settembre) abbiamo incontrato varie autorità palestinesi, unitamente a vari parlamentari europei, francesi e italiani e agli avvocati francesi Gisèle Halimi e Daniel Voguet. In particolare abbiamo avuto la possibilità di incontrare il capo del governo Abu Ala, il presidente Yasser Arafat e il viceministro degli Esteri Ilian Halevy. Sempre durante la mattinata abbiamo avuto occasione di partecipare a una riunione a Ramallah del Comitato per la liberazione di Marwan Barghouti, al quale hanno preso la parola parlamentari e giuristi. Nel pomeriggio abbiamo compiuto una ricognizione sul muro in costruzione, organizzata dal locale ufficio della Commissione europea. In tale contesto abbiamo avuto anche occasione di incontrare gli studenti dell'Università di Bir Zeit che occupano il loro campus che dovrebbe essere attraversato dal muro stesso.

Dai colloqui e dalle visite è risultato come gli ostacoli più importanti a una pace duratura fra israeliani e palestinesi siano costituiti dal muro, che frammenta il territorio palestinese rendendo ancora più diffiicile la vita dei suoi abitanti, il terrorismo indiscriminato e le cosiddette uccisioni selettive di membri di organizzazioni palestinesi, nonché il problema costituito dall'esistenza di migliaia di prigionieri palestinesi, fra i quali Marwan Barghouti.

Il giorno seguente la delegazione ha avuto modo di assistere al processo contro il leader paelstinese Marwan Barghouti, al quale la Corte ha dato modo di prendere posizione in relazione alle accuse formulategli.

Marwan ha trasformato il processo a suo carico in uno contro l'occupazione, identificata alla stregua di autentica causa della situazione attuale di conflitto.

La sala era in buona misura occupata da esponenti della stampa e delle varie delegazioni straniere.

La posizione processuale di Barghouti è attualmente la seguente. Dato che il 12 ottobre si compiono i termini della carcerazione preventiva, si pongono a questo punto tre alternative:

a) condanna prima della scadenza dei termini;

b) richiesta alla Corte suprema di una proroga dei termini di carcerazione preventiva;

c) scarcerazione di Barghouti.

Il difensore di Marwan, Jawad Boulos è stato sottoposto, nel frattempo, a procedimento disciplinare perché sospettato di aver raccolto un'intervista con il leader che è stata pubblicata il 26 luglio da un importante quotidiano israeliano. Jawad ha pertanto bisogno della nostra solidarietà, anche mediante pronunce di ordini locali ed associazioni varie.

Il terzo giorno (30 settembre) abbiamo infine incontrato i parenti e l'avvocato dei sei giovani obiettori israeliani che rifiutano il servizio militare per motivi di coscienza di ordine politico. La difesa si basa sulla legge israeliana per la tutela della dignità e libertà umana del 1992. Il 4 novembre si terrà la Corte marziale che deciderà in ordine al loro caso e si raccomanda quindi la presenza di delegazioni di parlamentari e giuristi.
Barghouti condannato
Il Coordinamento nazionale dei giuristi democratici esprime la propria
disapprovazione e il proprio sdegno per la decisione del tribunale
israeliano di condannare il leader palestinese Marwan Barghouti, sulla base
di prove inesistenti, come corresponsabile di alcuni atti di terrorismo. Si
è trattato in realtà di un giudizio politico fino in fondo che reca grave
danno alla reputazione del sistema giudiziario israeliano. Chiediamo con
forza l'immediata liberazione di Marwan Barghouti, leader che, per la sua
capacità e il suo radicamento popolare può dare un decisivo contributo alla
causa della pace in Medio Oriente. La decisione, presa dal governo Sharon,
di condannarlo, rivela ancora una volta la volontà di tale governo di
eliminare il popolo palestinese e ogni sua rappresentanza politica. Lo
stesso intento esemplificato oggi dai criminali massacri di civili a Gaza.
La comunità internazionale deve prendere posizione contro questo sciagurato
intento. L'Unione europea deve procedere all'immediata sospensione
dell'Accordo di associazione con Israele.

Roma, 21 maggio 2004

IL COORDINAMENTO NAZIONALE DEI GIURISTI DEMOCRATICI