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Sul "controllo di vicinato": note a margine della sentenza n. 236/2020 della Corte costituzionale
Redazione 27 gennaio 2021 12:53
Contributo dell'Avv. Angelo Pozzan "Piero", presidente della sezione veneziana dei G.D. intitolata ad Emanuele Battain

Segnalo la recente sentenza della Corte costituzionale del 21 ottobre – 12 novembre 2020, n. 236, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della Legge Regionale del Veneto 8 agosto 2019, n. 34 «Norme per il riconoscimento e il sostegno della funzione sociale del controllo di vicinato nell'ambito di un sistema di cooperazione interistituzionale integrata per la promozione della sicurezza e della legalità».

Il “controllo del vicinato” è un “istituto” (se tale può essere definito) nato sulla scorta delle famigerate “ronde” di maroniana memoria e sulle ceneri di plurimi interventi di annullamento in tale materia dei Giudici amministrativi.

Tale istituto è stato disciplinato dalla Regione Veneto con la legge regionale n. 34/2019 che è stata, con la sentenza segnalata, dichiarata illegittima costituzionalmente per violazione di due norme della nostra Costituzione, e cioè degli articoli 117, comma secondo, lettere g) e h) e 118, comma terzo.

Dette norme riconoscono solo allo Stato la potestà legislativa su «ordine pubblico e sicurezza pubblica», nonché sull’«ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato», nonché sulle «forme di coordinamento tra Stato e Regioni» in questi e altri ambiti.

Osservo, innanzitutto, come la disciplina dichiarata illegittima non riguardi —come più spesso avviene per gli interventi della Corte— singoli commi o articoli, ma la legge regionale nella sua integrità che è stata quindi considerata in nuce illegittima, avendo la legge nella sua integrità «un contenuto fortemente omogeneo, che impinge nella sua globalità in competenze esclusive dello Stato».

Da un punto di vista socio–politico, osservo che i gruppi di persone che fanno parte od operano con tali forme di controllo, spesso, al di là del nome e della struttura formale che a loro viene concessa dalla legislazione, di fatto, e cioè nei loro interventi concreti, si distinguono per gli esiti unicamente nei confronti di "barboni", migranti, al più di venditori ambulanti. Ciò tanto da sembrare motivati non tanto da giuste pulsioni nei confronti della criminalità, ma dalla volontà di repressione dei soliti “miserabili”.

In tale contesto, l’intervento delle Regioni nella materia con motivazioni e finalità, solo apparentemente celate, non lontane dagli impulsi più repressivi e liberticidi che maggiormente prevalgono a livello locale (piuttosto che a livello centrale dove viene mantenuto, almeno, il dovuto distacco da tali impulsi e maggiore attenzione alla tutela dei diritti), è da evitare, non solo per ragioni politiche ma anche giuridico-istituzionali.

Ciò affermo perché ritengo sia sicuramente preferibile che l’attività repressiva e di tutela della pubblica sicurezza sia lasciata ai professionisti della materia, e quindi diretti dal Governo, piuttosto che a cittadini e collaboratori di quartiere privi di professionalità e spesso mossi da istinti populisti della peggior specie.

Ben venga quindi la sentenza della Corte costituzionale la quale, facendo finalmente pulizia in merito alle competenze dello Stato, afferma che l’art. 117, co. 2o, lett. h) Cost., che sancisce l’esclusiva competenza statale in materia di ordine pubblico e sicurezza ad esclusione della polizia amministrativa locale, allude al complesso di «funzioni primariamente dirette a tutelare beni fondamentali, quali l'integrità fisica o psichica delle persone, la sicurezza dei possessi e ogni altro bene che assume primaria importanza per l'esistenza stessa dell'ordinamento» (così anche sentenza n. 290 del 2001).

Tali funzioni, ha osservato la Corte nella sentenza n. 285 del 2019, costituiscono una «materia in senso proprio, e cioè […] una materia oggettivamente delimitata, rispetto alla quale la prevenzione e repressione dei reati costituisce uno dei nuclei essenziali: sicurezza in “senso stretto” (o sicurezza primaria)».

Ciò rispetto, invece, a una sicurezza “in senso lato” (o sicurezza secondaria), capace di ricomprendere un fascio di funzioni intrecciate, corrispondenti a plurime e diversificate competenze di spettanza anche regionale, tra le quali «realizzare una serie di azioni volte a migliorare le condizioni di vivibilità dei rispettivi territori, nell’ambito di competenze a esse assegnate in via residuale o concorrente, come, ad esempio, le politiche (e i servizi) sociali, la polizia locale, l’assistenza sanitaria, il governo del territorio» (ancora, sentenza n. 285 del 2019), rientranti per l’appunto nel genus della “sicurezza secondaria”.

In coerente applicazione di questi principi, ricorda la Corte costituzionale nella nota sentenza:

- vi sono state recenti pronunce che hanno ad esempio ritenuto costituzionalmente legittime normative regionali che promuovono «azioni coordinate tra istituzioni, soggetti no profit, associazioni, istituzioni scolastiche e formative per favorire la cooperazione attiva tra la categoria professionale degli interpreti e traduttori e le forze di polizia locale ed altri organismi, allo scopo di intensificare l’attività di prevenzione nei confronti dei soggetti ritenuti vicini al mondo dell’estremismo e della radicalizzazione attribuibili a qualsiasi organizzazione terroristica» (sentenza n. 208 del 2018); che mirano a contrastare il cyberbullismo attraverso programmi di promozione culturale e finanziamenti regionali nell’ambito dell’educazione scolastica (sentenza n. 116 del 2019); o ancora che mirano a istituire osservatori sulla legalità, con compiti consultivi e funzioni di studio, ricerca e diffusione delle conoscenze sul territorio, nonché a promuovere e sostenere la stipula di “protocolli di legalità” tra prefetture ed amministrazioni aggiudicatrici per potenziare gli strumenti di prevenzione e contrasto dei fenomeni corruttivi e delle infiltrazioni mafiose ( così sentenza n. 177 del 2020);

- sono state, all’opposto, dichiarate costituzionalmente illegittime normative regionali suscettibili di produrre interferenze, anche solo potenziali, nell’azione di prevenzione e repressione dei reati in senso stretto, considerata attinente al nucleo della “sicurezza primaria” di esclusiva competenza statale (si vedano, ad esempio, la già citata sentenza n. 177 del 2020, che ha annullato una disposizione regionale istitutiva di una banca dati dei beni confiscati alla criminalità organizzata esistenti sul territorio regionale, in ragione della sua interferenza con i compiti della Banca dati nazionale unica per la documentazione antimafia; la sentenza n. 35 del 2012, relativa ad una normativa regionale in materia di tracciabilità dei flussi finanziari per prevenire infiltrazioni criminali; la sentenza n. 325 del 2011, relativa ad una legge regionale che istituiva un’agenzia avente compiti sostanzialmente sovrapponibili a quelli dell’Agenzia statale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata).

La legge regionale del Veneto, precisa la Corte delle leggi, mira essenzialmente a promuovere la «funzione sociale del controllo di vicinato come strumento di prevenzione finalizzato al miglioramento della qualità di vita dei cittadini» (art. 2, co. 1), favorendo altresì la stipula di accordi o protocolli di intesa in materia tra gli uffici territoriali di governo e le amministrazioni locali (art. 2, co. 4), sostenendone in vario modo l’attività (artt. 3 e 4), e istituendo una banca dati per il monitoraggio dei relativi risultati (art. 5).

Tutto questo complesso di interventi ruota attorno alla nozione di «controllo di vicinato», definita dall'art. 2, co. 2, come «quella forma di cittadinanza attiva che favorisce lo sviluppo di una cultura di partecipazione al tema della sicurezza urbana e integrata per il miglioramento della qualità della vita e dei livelli di coesione sociale e territoriale delle comunità, svolgendo una funzione di osservazione, ascolto, monitoraggio, quale contributo funzionale all’attività istituzionale di prevenzione generale e controllo del territorio».

E qui, il legislatore regionale, preoccupato delle conseguenze che tale richiamo al controllo del territorio può determinare, corre ai ripari precisando che: «Non costituisce comunque oggetto dell’azione di controllo di vicinato l’assunzione di iniziative di intervento per la repressione di reati o di altre condotte a vario titolo sanzionabili, nonché la definizione di iniziative a qualsivoglia titolo incidenti sulla riservatezza delle persone».

Ma sul punto la Corte delle leggi non si fa trascinare nel tranello in cui la vorrebbe condurre il legislatore regionale.

Afferma la Corte, infatti, che: «Nonostante l’esplicita esclusione dai compiti del controllo di vicinato della possibilità di intraprendere iniziative per la «repressione di reati» o comunque incidenti sulla riservatezza delle persone, l’espressa menzione, nella disposizione appena citata, della «attività istituzionale di prevenzione generale e controllo del territorio», lungi dall’alludere a mere «precondizioni per un più efficace esercizio delle classiche funzioni di ordine pubblico» (sentenza n. 285 del 2019) riconducibili alla nozione di “sicurezza secondaria”, non può che riferirsi alla specifica finalità di “prevenzione dei reati”, da attuarsi mediante il classico strumento del controllo del territorio.

Tale finalità costituisce il nucleo centrale della funzione di pubblica sicurezza, certamente riconducibile —assieme alla funzione di “repressione dei reati”— al concetto di “sicurezza in senso stretto” o “sicurezza primaria”, di esclusiva competenza statale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera h) Cost.».

Precisa poi la Corte che anche il successivo co. 4 del citato art. 2, che impegna la Giunta regionale a promuovere la stipula di accordi o protocolli di intesa tra Uffici territoriali di Governo ed enti locali «in materia di tutela dell’ordine e sicurezza pubblica», conferma tale finalità, con conseguente, ed esplicitamente rivendicata, interferenza del legislatore regionale in una materia in cui l’intervento regionale è in radice precluso, al di fuori delle ipotesi disciplinate espressamente dal legislatore statale ai sensi dell’art. 118, terzo comma Cost. (ipotesi che non ricorrono nella specie).

La legge regionale è, quindi, integralmente incostituzionale.

Per concludere. Fra tante cattive notizie di questi giorni, ve n'è anche una buona.

Va infatti pian piano affermandosi nell'opinione pubblica, ma anche nelle pronunce della Corte costituzionale, un’attenzione particolare all’intangibilità dello Stato, della sua struttura e delle sue funzioni (sanitarie ma ora anche di presidio di sicurezza pubblica). Ciò, contro i tentativi delle Regioni di intervenire in quelle materie, come la sanità e ora anche la pubblica sicurezza, in cui è maggiore la propaganda populista e disaggregante della destra, sulla scia della folle proposta sull'autonomia differenziata.

 

Piero Pozzan