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Il lavoro di cittadinanza: una proposta per attuare i principi sanciti dalla Costituzione (intervista a Pietro Adami)
Redazione 18 febbraio 2019 20:02
Riproponiamo l'intervista rilasciata dal nostro Pietro Adami al settimanale Left lo scorso dicembre 2018, avente ad oggetto la proposta di rendere il diritto al lavoro sancito dalla Costituzione un diritto soggettivo, operante anche in ambito comunitario, nel quadro di una cittadinanza sociale europea.

Il lavoro come diritto costituzionale che lo Stato deve garantire. È questo il tema al centro di un colloquio tra Leila El Houssi, docente di Storia dei Paesi islamici all’università di Padova e copresidente del Forum Italo Tunisino, e Pietro Adami dei Giuristi democratici.

Pietro Adami, hai realizzato una proposta molto interessante che media le istanze tra reddito e lavoro. Ce ne vuoi parlare?
Il diritto al lavoro è previsto dall’art. 4 della Costituzione. L’interpretazione tradizionale di questo diritto afferma che lo Stato deve limitarsi a favorire condizioni economiche generali che possano poi creare, spontaneamente, posti di lavoro. In questo quadro il diritto al lavoro viene considerato un diritto genericamente politico. Lo Stato deve darsi da fare, ma il cittadino non ha uno strumento per pretendere effettivamente il lavoro, tuttalpiù non rivoterà lo stesso partito nell’elezione successiva. Da questo parte la nostra proposta, che vuole fornire una lettura diversa di questo fondamentale principio costituzionale.
Vogliamo configurare il lavoro come diritto pieno ed effettivo. Si tratta di una proposta radicale, con forte valenza simbolica: lavoro per tutte e per tutti. Non come promessa generica, bensì come diritto soggettivo. Chiunque deve potersi presentare e dire: «Io domani voglio lavorare». E lo Stato, per legge, ha l’obbligo di dare un lavoro.

Oggi viviamo in una società complessa. La globalizzazione ha creato una mutazione nel lavoro. Abbiamo un declino dei sistemi produttivi standardizzati e c’è – volenti o nolenti – un sistema più eterogeneo, frammentato e terziarizzato. Le nuove tecnologie, come tu sostieni hanno amplificato un processo di desertificazione crescente, che interessa soprattutto i profili lavorativi meno qualificati.
Se il mercato spontaneamente non è in grado di creare sufficienti posti di lavoro, dev’essere lo Stato a intervenire in modo diretto. La questione a nostro avviso riveste un carattere d’urgenza, dato che è sotto gli occhi di tutti l’enorme disoccupazione che il nostro paese sta vivendo e che sembra ormai assumere una dimensione strutturale.
Non scopriamo nulla di nuovo. Il progresso tecnologico, inarrestabile, macina continuamente posti di lavoro, soprattutto nelle attività meno qualificate. A parità di produzione, servono sempre meno lavoratori.

Mi ha colpito quando tu affermi che, ad esempio, sino a pochi anni fa, tutti gli studi legali, anche quelli più piccoli, avevano una segreteria. Oggi, con pc, e-mail, Pec e processo telematico solo gli studi più grandi, di fatto, hanno il supporto di una segreteria (e comunque ne hanno ridotto il numero rispetto a quindici anni fa). In Italia il settore degli studi legali, e professionali in genere, ha espulso del lavoro non meno di 50.000 figure professionali, che non sono state rimpiazzate in nessun modo.

È solo uno tra i molteplici esempi che ciascuno può riportare al proprio campo. Qualche tempo fa, ad esempio, mi sono trovato ad effettuare una pratica con il Comune di Roma interamente on line ed automatizzata. Fino a poco tempo fa mi sarei dovuto mettere in fila agli uffici. Se ne possono trarre molte suggestioni. Il punto di vista nostro è : “si è perso un posto di lavoro?” .

A tuo avviso quale potrebbe essere la modalità per sciogliere questo nodo e per risolvere la situazione ?

In primo luogo dobbiamo confutare la tesi finora dominante. Quella per cui il sistema genererà nuove utilità tali da assorbire tutti i disoccupati ed è sufficiente agire sulla leva dei costi del lavoro.
In primo luogo dobbiamo capire che oggi il costo del lavoro incide ben poco sugli utili. Google o Amazon non hanno alcun problema a pagare bene quei pochi lavoratori che impiegano, stanti gli enormi margini di utile. Da questo ricaviamo che anche le analisi dei liberisti, che vantano una presunta modernità, sono ferme all’ottocento. Infatti, in questo quadro, la riduzione di un punto dei costi del lavoro produce un effetto irrisorio.
Ma più in generale si deve comprendere che la via d’uscita dalla crisi non può essere quella di un aumento indiscriminato della produzione di beni. Se la produttività del lavoro aumenta di dieci volte, per compensare i posti di lavoro io dovrei aumentare di dieci volte la produzione. È impensabile per diverse ragioni. Il sistema non è in grado di assorbirli, l’ambiente naturale non lo sopporterebbe.
Il liberismo funziona discretamente bene nella prima fase, di soddisfazione di alcuni bisogni materiali primari. Poi tende ad iper soddisfare sempre i medesimi bisogni. È un discorso che porterebbe lontano. Ciò che conta è che non puoi moltiplicare per 10 la produzione di hamburger per assorbire l’impatto delle nuove tecnologie.
Quindi l’iper-produzione di beni privati ad alto consumo ambientale deve essere sostituita dalla produzione di beni sociali compensativi.

Tu sostieni che debba essere lo Stato ad intervenire in modo diretto.

In questa situazione il lavoro cessa di essere solo un mezzo per produrre altri beni sociali, ma diventa esso stesso un bene sociale che deve essere prodotto dalla collettività.
Abbiamo detto che il sistema, senza intervento pubblico, non produce spontaneamente sufficiente lavoro per tutti. Dunque, il lavoro è un servizio pubblico, al pari della salute e dell’istruzione.
Qualifichiamo l’istruzione come servizio pubblico universale, nel senso che ogni cittadino ha diritto all’istruzione. Creiamo dei luoghi che offrano istruzione, e la società ne potrà trarre un beneficio, non solo perché i ragazzi sono impegnati durante una parte della giornata, ma come crescita della collettività ed investimento per il futuro.
Anche il lavoro deve essere un servizio pubblico. È questo il cambio di prospettiva. Garantire ai cittadini il benessere attraverso la possibilità di esplicare le loro potenzialità attraverso attività di contribuzione al bene pubblico.

Nella tua proposta sostieni, il lavoro è un modo fondamentale di esplicazione della personalità. Il lavoro è il contributo dell’individuo alla costruzione della società in cui vive. Citi Hegel nella sua affermazione «L’uomo è l’essere che nel costruire il mondo costruisce se stesso».

È un tema di grande importanza. Sul punto ci siamo confrontati con non solo con gli economisti, ma anche e soprattutto con psicologi e sociologi. C’è un nodo di grande pedagogia sociale. Tutti devono contribuire alla costruzione del bene collettivo. Ciascuno, rispetto alle proprie possibilità, evidentemente.
A questo proposito vorrei condividere una mia esperienza personale. Ho lavorato per molti anni con i non vedenti ed ho ancora moltissimi amici e amiche tra di loro. È ovvio che serva un aiuto sociale per compensare la loro disabilità. Ad esempio i buoni-taxi sono doverosi per chi non può guidare. Nel contempo i miei amici e le mie amiche sono perfettamente in grado di dare il loro contributo e di aiutare gli altri.
Con questa mia esperienza personale, voglio dimostrare quanto sia profondamente discriminatorio qualificare un soggetto come mero soggetto bisognoso. Pensiamo anche alle donne che durante la gravidanza necessitano di aiuto, ma questo non ci autorizza a bollarle come inabili a dare un contributo alla società.
Credo che sia giunto il momento di dare un messaggio completamente diverso. Tutti devono fornire il proprio contributo per uscire dalla sacca in cui siamo precipitati. Non possiamo trasformarci in uccellini che pigolano nel nido in attesa che la mamma gli porti il vermetto da mangiare. I beni comuni di cui godiamo sono solo la somma di tutto quello che noi generiamo con il nostro lavoro sociale. Se conferiamo poco, e aspettiamo sempre che siano altri a dare, subiamo quella tristezza sociale cui assistiamo. Non è solo povertà economica, è la crisi del vivere collettivo.

Siamo completamente d’accordo su questo punto. Tuttavia anche se nel lavoro l’individuo cresce, si forma non credi che oggi ci sia una narrazione che spinga sempre di più i cittadini di uno Stato in un altro senso?

La questione che poni è quella che spesso divide. Dare un lavoro o un reddito? Ma noi, Cesare Antetomaso, Domenico Gallo ed io, proponiamo una mediazione. Reddito e formazione subito, e poi lavoro.

In concreto come funzionerebbe?

Il lavoro di cittadinanza è un lavoro di almeno 5/6 ore al giorno, ben pagato, e con importi non inferiori a quelli da CCNL. Nel momento in cui il lavoratore fa richiesta viene indirizzato a un lavoro, sulla base di aspirazioni, competenze e necessità. Le competenze possono essere acquisite anche nel percorso formativo che egli stesso sceglie. Questo significa che occorrerà tenere conto delle inclinazioni di ciascuno.
Facciamo degli esempi concreti per comprendere meglio. Il violinista suonerà nella stanza del museo, gli attori formeranno una compagnia teatrale che girerà per le scuole per far conoscere la tragedia greca e latina. Altri terranno aperte le scuole dopo l’ora di pranzo, permettendo agli studenti di fermarsi a studiare e ad altri lavoratori di dare delle ripetizioni. Il nodo essenziale deve, però, essere: le prestazioni di lavoro non devono sostituire lavori o servizi esistenti, ma creare una nuova utilità sociale, che prima non esisteva. Un’utilità che andrà a beneficio dei cittadini, ma che favorirà anche il sistema produttivo. In modo partecipato e, per quanto possibile, autogestito, s‘individuano bisogni sociali ed ambientali irrisolti, in cui impiegare le proprie energie lavorative. Un esempio potrebbe essere quello di proporre di tenere aperto un bene culturale, o ambientale, fino a quel momento non fruibile.

Ma non dimentichiamo la ricerca speculativa, la produzione artistica, musicale e culturale in genere. Non credi tuttavia che dovremmo ragionare in termini di Europa? Piketty ha lanciato qualche giorno fa un manifesto “Per la democratizzazione dell’Europa”  in cui afferma che «L’Europa debba costruire un modello originale per garantire uno sviluppo sociale equo e duraturo dei propri cittadini. L’unico modo per convincerli è quello di abbandonare promesse vaghe e teoriche. Se l’Europa vuole riconquistare la solidarietà dei propri cittadini, potrà farlo solo dimostrando concretamente di essere in grado di stabilire una cooperazione tra europei e facendo in modo che coloro che hanno tratto vantaggio dalla globalizzazione contribuiscano al finanziamento dei beni pubblici che oggi in Europa sono gravemente carenti. Ciò significa far sì che le grandi imprese contribuiscano in misura maggiore delle piccole e medie imprese e che i contribuenti più abbienti paghino in misura maggiore dei contribuenti più poveri».

Concordo completamente. Solo un soggetto politico sufficientemente consistente potrà far pagare seriamente le tasse alle nuove imprese del mercato globale come Google, Amazon, Air B&B etc. Per costruire una società diversa, abbiamo bisogno di una dimensione compatibile con una politica economica autonoma.
Un microstato non è in grado di creare un mondo economico regolato da precetti alternativi. Poteva farlo quando la ricchezza era prodotta essenzialmente dall’agricoltura o dall’industria a bassa componente tecnologica. San Marino può dichiarare il socialismo quanto vuole, ma il software lo dovrà sempre comprare negli Usa. E dunque cosa avrà socializzato? Un bel nulla. L’unico modo per pensare di fronteggiare il mercato mondiale è un agglomerato, e mercato interno, consistente, che possa stabilire le regole a chi vuole entrarvi.

Piketty continua sostenendo che la sua proposta si basa sulla creazione di un budget per la democratizzazione discusso e votato da un’assemblea europea sovrana e in tal modo questo consentirebbe all’Europa di produrre un insieme di servizi e di beni pubblici e sociali fondamentali nel quadro di un’economia duratura e solidale. Cosa ne pensi?
La nostra proposta è lavorare su una cittadinanza sociale europea. Noi puntiamo al riconoscimento ai singoli cittadini europei, che non passi attraverso la mediazione degli Stati. Noi sosteniamo che la stessa Unione sia diretta responsabile dei diritti fondamentali (reddito, lavoro, salute, casa etc.). Garantire i livelli sanitari è, infatti, il problema centrale europeo. Non è sufficiente che l’Europa consenta al corpo intermedio ‘Italia’ di fare più debito. Il bilancio comunitario deve pagare i servizi sociali europei, garantendo a tutti i cittadini europei livelli uniformi.
Ecco cos’è l’eterogenesi dei fini: che l’unificazione del mercato sia invece crescita dei diritti soggettivi e sociali, con un’Europa pienamente democratica in grado di varare un suo grande piano sociale ed economico in un’ottica differente da quella attuale.