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Trasformazioni produttive e politiche del lavoro - Luciano Gallino
Redazione 4 luglio 2012 07:57
Il testo dell'intervento al convegno tenutosi a Torino il 19 giugno 2012 sulla riforma del diritto del lavoro.

Il testo può essere scaricato anche dall'allegato.

Trasformazioni produttive e politiche del lavoro

La trasformazione della produzione di beni e servizi
A partire all’incirca dal 2005 il 75 per cento delle nuove assunzioni – che riguardano soprattutto i giovani, ma non solo essi - ha luogo sia nelle imprese private, sia in molti settori della PA, con contratti di durata determinata, quale che sia la loro denominazione o tipologia formale. La maggior parte di questi ha una durata di pochi mesi. Molti sono rinnovati alla scadenza, senza però alcuna garanzia di rinnovo. I tipi di contratto con scadenza prefissata che la legge del 2003 prevede sono oltre quaranta, ma quelli più utilizzati sono forse una decina: dalle collaborazioni continuative o a progetto all’apprendistato, dal dipendente a tempo determinato al lavoro temporaneo, dal lavoro occasionale a quello in affitto o in somministrazione. A questi occorre aggiungere i titolari di partita Iva che lavorano in realtà come dipendenti. Si tratta di una massa di persone stimabili – premesso che la stima non è affatto agevole – in 4-5 milioni di persone. La crisi economica ha accentuato il fenomeno, ma in misura minore di quanto non ci si potesse attendere, poiché essa moltiplicato a dismisura soprattutto il numero dei lavoratori in cassa integrazione o in mobilità. In forza di tale evoluzione dei contratti, da sicuro qual era il lavoro è diventato una fonte di insicurezza socioeconomica collettiva.
Si tratta di un processo che ha avuto inizio fin dagli anni 80. Alle sue origini vi è una profonda trasformazione della produzione di beni e servizi. Essa è stata scomposta, riorganizzata e ridistribuita in tutto il mondo su scala globale, perseguendo la cosiddetta “creazione di valore”. A quest’ultima è stata impressa la forma di catene reticolari di unità produttive le quali sono distribuite in vasti spazi attraverso i continenti. Una catena di creazione del valore abbraccia numerosi processi materiali e immateriali che vanno dalla concezione o innovazione di un prodotto, manufatto o servizio che sia, sino alla sua distribuzione, passando per una lunga serie di fasi intermedie: la ricerca e sviluppo, la progettazione, l'ingegnerizzazione, l'acquisto di materie prime e semilavorati, la costruzione di sistemi o componenti intermedi, l’assemblaggio, il confezionamento, il trasporto ai punti di vendita. Ciascuno dei suddetti processi può essere scomposto, a sua volta, in più anelli d’una catena globale di creazione del valore, e ciascun anello può oggi venire collocato ovunque nel mondo.
La grande impresa contemporanea, che di norma ha la struttura societaria o “corporata” (da cui il nome anglo-latino di corporation) di un gruppo economico il cui vertice controlla in molti casi centinaia di società, quando non migliaia, ha cercato di rendere indipendenti e autosufficienti, nella maggior misura possibile, tutti gli anelli delle catene di creazione del valore che concorrono a formare il suo fatturato. Per cominciare ha puntato a ridurne le dimensioni medie in termini di numero degli addetti. Ciò vale sia per gli anelli formati dalle società controllate o sussidiarie, sia per quelli costituiti dai fornitori non facenti parte del gruppo, comprese tra queste le Pmi. Accade infatti che la maggior parte delle catene globali sia composta dalle une e dalle altre. La frammentazione funzionale e spaziale del processo produttivo è stata perseguita per diversi motivi:
- se gli anelli d’una catena di creazione del valore sono funzionalmente autonomi, è possibile effettuare di essi valutazioni più precise sia sotto il profilo industriale sia sotto il profilo del loro valore di borsa;
- quale che sia il motivo – difetti di qualità, prezzo, puntualità ecc. - è più facile e rapido sostituire come fornitore o committente, cedere ad altri, oppure chiudere, l’unità produttiva che forma ciascun anello allorchè questa ha dimensioni ridotte;
- si può puntare a distribuire nel mondo gli anelli della catena in modo che ciascuno di essi presenti la miglior combinazione localmente possibile di fattori quali: basso costo del lavoro; nessun limite all’orario di lavoro; agevolazioni fiscali e doganali; vincoli scarsi o inesistenti in tema di ambiente; presenza limitata o nulla dei sindacati;
- è più agevole costruire catene di creazione del valore atte a rendere più difficile l’accertamento, da parte delle autorità fiscali, delle unità produttive e dei luoghi in cui viene effettivamente prodotto il valore. Per tale via si perviene a rendere assai più basso di quanto non sarebbe in realtà l’imponibile del gruppo, e quindi l’imposizione fiscale effettiva. La francese Total, ad esempio, ha realizzato nel 2010 utili per 12 miliardi di euro, ma nel suo paese non ha pagato – legalmente – un euro di imposte;
- infine, quando le unità produttive sono di dimensioni ridotte, e lontane tra loro, diventa difficile che l’organizzazione sindacale dei lavoratori si sviluppi al punto da poter costituire, nell’impresa locale o sul piano transnazionale, una fonte reale di opposizione nei confronti delle direzioni per qualsiasi aspetto delle condizioni di lavoro, a cominciare da retribuzioni ed orari.

In simili catene di produzione del valore, gran numero delle imprese o unità produttive che compongono la catena complessiva dipendono dalle commesse, dagli ordinativi, dai giudizi, dalla valutazione dei prezzi e del rapporto costi-benefici di un’altra impresa. La quale spesso è un sub-fornitore che a sua volta dipende per la sua attività da un’altra impresa più grande di lei, dalla quale provengono le commesse. Si è così avuta una redistribuzione del rischio di impresa estremamamente capillare, in forza della quale una miriade di piccole e medie aziende devono badare ciascuna alla possibilità di adattare in modo rapidissimo il proprio flusso produttivo in funzione di ciò che i vari livelli di sub-fornitura, o di sub-sub-commesse pretendono.
Di conseguenza la flessibilità della produzione globalizzata tende a diventare per la singola impresa una necessità. Questo perchè nessuna di esse è in grado di sapere se il mese prossimo potrà ancora contare su quella tal commessa riguardante attività esternalizzate o internalizzate della organizzazione produttiva della società che è a capo della catena. Pertanto codesto rischio, che richiede una elevata flessibilità complessiva dell’impresa, nella maggior parte dei casi si traduce in una richiesta di moltiplicare l’occupazione di breve durata. In una rete del genere l’imperativo diventa “primo, non assumere; secondo, passa ad altre imprese tutto il lavoro che puoi”. E’ l’idea della no assets company, una società che non ha impianti, né mezzi di produzione, né dipendenti. Per cui, anziché assumere, un’impresa punta a suddividere il lavoro in tante commesse da assegnare ad altre imprese; ciascuna delle quali, avendo il medesimo problema, cercherà di trasferire il rischio e la richiesta di flessibilità a valle. L’ideale perseguito è l’impresa priva come si diceva di attività produttive, perché tutto quello che produce in realtà è prodotto da altri. Si noti che megacorporation come la Nike, la Dell, la Apple, sono molto prossime alla realizzazione di tale ideale: ciascuna di esse fa lavorare centinaia di migliaia di salariati all’estero, in centinaia di imprese sussidiarie, ma nel loro paese hanno poche migliaia di dipendenti
In tal modo si creano catene di commesse e sub-commesse reticolari che possono comportare l’intervento di numerose imprese, localizzate talora in dieci o venti paesi differenti, per ricomporre alla fine l’unità del processo produttivo. I tanti pezzi che compongono l’I-Phone, ad esempio, sono fabbricati in nove paesi diversi, e alla fine vengono assemblati in Cina. Ciascuno degli anelli-azienda che formano la catena-rete, in quanto è sottoposto al rischio di non vedersi rinnovare a breve termine una determinata commessa o fornitura, reca un interesse oggettivo a utilizzare la maggior quota possibile di lavoratori discontinui, intermittenti, a tempo determinato, in affitto, con contratti di breve durata; di lavori cioè che si possono utilizzare il più possibile adottando il principio del “giusto in tempo” (un principio su cui ritornerò poco oltre) e solo su domanda dell’impresa committente, che di quel componente rappresenta il mercato.
E’ questa struttura reticolare, di rischi globali distribuiti, dove ciascuna impresa, piccola o grande che sia, è sottoposta a pressioni incessanti (sui prezzi, sulla qualità, sulla riduzione dei costi, sui tempi) da parte d’una cascata di altre imprese operanti in ogni parte del mondo, ciò che motiva le imprese di ogni dimensione a richiedere una quota sempre maggiore di lavoratori con contratti di breve durata. La flessibilità, sinomino di lavoro reso intenzionalmente insicuro, è figlia primogenita della globalizzazione. Lo è, si noti, non nel senso che esiste un processo universale chiamato globalizzazione al quale le imprese debbono forzatamente adeguarsi; ricorrendo, tra gli altri, allo strumento del lavoro flessibile. Ma piuttosto nel senso che la globalizzazione è derivata dalla ricerca di una complessiva riorganizzazione della produzione, secondo le linee sopra riassunte, che premia le imprese che sanno usare la maggior quota di lavoro flottante.
Pertanto uno degli scopi essenziali della riorganizzazione produttiva etichettata “globalizzazione” è stato, e continua ad essere, quello di sottrarre un tratto il più lungo possibile del processo produttivo alle condizioni di lavoro predominanti nei paesi industriali avanzati; condizioni caratterizzate da salari elevati, contratti di durata indeterminata, vincoli legislativi al licenziamento e forti tutele sindacali. Il rovescio di tali condizioni è stato trovato in Cina, India, Indonesia, in altri paesi del Sud-est asiatico, ma anche nei maggiori paesi dell’ex Urss, Russia e Ucraina. In pochi lustri circa un miliardo e mezzo di lavoratori “globali” sono stati quindi deliberatamente posti in competizione con i lavoratori dei paesi più avanzati. La pressione sui salari che si avverte in Italia come in altri paesi, e la domanda di disporre di un tasso di occupazione variabile da parte delle imprese, stanno a significare che se non si accettano salari più bassi, e contratti che facilitano l’uscita dei lavoratori dalle imprese senza la necessità di licenziarli perché il contratto ha una data di scadenza, il lavoro viene trasferito in altri paesi. Là dove una smisurata quantità di forza lavoro è disponibile a condizioni assai peggiori.
In questo quadro la richiesta da parte delle imprese di aumentare la quantità di forza lavoro instabile o precaria persegue altri due scopi. Il primo è quello di ridurre il costo diretto e indiretto del lavoro che si deve in ogni caso impiegare, adeguandone l’utilizzo il più strettamente possibile all’andamento della produzione e/o delle vendite previsto o rilevabile nel corso dell’anno, della settimana, e in certi comparti produttivi perfino del giorno.
La riduzione del costo del lavoro viene perseguita applicando all’utilizzo della forza lavoro un paio di princìpi di gestione aziendale che hanno avuto un buon successo nella ristrutturazione globale delle attività produttive a partire dagli anni 80 del secolo scorso, e con particolare intensità e rapidità negli anni 90. Il primo principio stabilisce che tutto deve arrivare o succedere “giusto in tempo”. Conforme ad esso, in pratica nulla nel processo produttivo, nessuna materia prima, nessun semilavorato, nessun componente, nessun ausilio o servizio di supporto deve arrivare nel punto fisico in cui deve venire lavorato, o montato, o fornito, se non nel preciso momento in cui potrà essere utilizzato.
Le attuali linee di montaggio dell’industria, non meno che le attività di servizio organizzate industrialmente, dalla grande distribuzione all’agrindustria alle campagne pubblicitarie, si basano in genere su questo principio. Il quale ha avuto notevole successo perché ha consentito di ridurre drasticamente gli stoccaggi, i magazzini, i depositi, i “polmoni” lungo le linee di lavorazione o di assemblaggio. Dovunque, in ogni tipo di impresa, l’insieme di questi spazi occupati da materiali o semilavorati o componenti in attesa di venir utilizzati è stato ormai ridotto dell’80% e oltre rispetto a qualche lustro fa. Ciò ha recato alle imprese cospicui risparmi in termini di superfici esterne attrezzate, locali coperti e recintati, aree interne di fabbriche e uffici, mezzi per la movimentazione dei materiali, oltre che numero degli addetti al complesso delle attività di stoccaggio. Il tutto non si sarebbe potuto realizzare senza un uso vieppiù intensivo dei sistemi di trasporto. In effetti nei nostri paesi autostrade e tangenziali sono diventate una sorta di reparto di produzione diffuso, considerato che ad ogni ora del giorno sono percorse da migliaia di Tir e altri veicoli che trasportano materiali e componenti per farli arrivare “giusto in tempo” ad un determinato impianto.
Il secondo principio per risparmiare lavoro stabilisce che si produce solo su domanda. L’espressione è recente, ma il principio è entrato nella pratica manageriale da tempo. Una volta le imprese formulavano dei dettagliati piani di vendita e su questi impostavano i loro piani di produzione per i successivi trimestri o semestri. Oggi formulano ancora delle previsioni di mercato, ma non esiste praticamente più alcun oggetto materiale o servizio complesso che venga prodotto se non nel momento in cui viene domandato da un cliente. Nessun costruttore di automobili, per dire, produce più tot auto di tal modello, colore, numero di porte, cilindrata, arredo interno ecc., cercando di stimare in anticipo quanti saranno i clienti disposti a comprarla. Soltanto quando un cliente prenota un’auto di tal colore, numero di porte ecc. partono i relativi ordini diretti ai fornitori e allo stabilimento di lavorazione e assemblaggio finale. Al limite è possibile che di quell’auto avente quelle tali specifiche venga prodotto, letteralmente, un solo esemplare. Se la domanda del cliente non si concreta in forma di prenotazione e corrispettivo versamento d’un anticipo, né i fornitori né lo stabilimento finale produrranno alcunchè.
Visto il successo organizzativo, tecnologico ed economico di questi due principi, si è fatta strada entro le imprese l’idea che i medesimi potessero essere utilizzati anche nell’impiego della forza lavoro. Dato che è una voce di costo importante, perché non applicare anche alla forza lavoro l’idea che essa venga domandata, e retribuita, soltanto nei momenti in cui produce effettivamente valore? In altre parole: perché non puntare a ottenere che il lavoratore sia fisicamente presente in un determinato punto del processo produttivo, onde alimentarlo con la sua prestazione, soltanto nel momento in cui, registrata la domanda d’un certo bene e avviato il processo produttivo, c’è veramente bisogno della sua attività? Il problema consiste nel regolare il flusso della forza lavoro in modo che la sue prestazioni vengano erogate, e dunque retribuite, solo quando siano effettivamente utilizzabili – ossia valorizzabili - in un dato tempo e luogo: non prima, non dopo, non altrove. Il punto di arrivo di queste riflessioni manageriali, che i processi di globalizzazione hanno contribuito a diffondere in tutto il mondo, è il lavoratore flessibile. Colui o colei che viene possibilmente occupato, in termini di ore e di prestazione, solo a fronte di una domanda effettiva, solo giusto in tempo, e solo per quel tempo sarà retribuito.
Questo ideale contemporaneo che innumerevoli imprese han fatto proprio – impiegare e retribuire esattamente le unità di forza lavoro che servono al momento, entro margini approssimati al giorno o addirittura all’ora – non è facile da raggiungere. Tuttavia, quando sia possibile impiegare o licenziare operai, tecnici, impiegati o commessi con la stessa facilità e rapidità con cui si acquista oppure si scarta un pezzo di ricambio; accrescere o diminuire da un giorno all’altro il volume di ore lavorate; spostare manodopera da uno stabilimento, un reparto, un ufficio o un deposito all’altro, come si fa con le scrivanie o i PC, detto ideale potrebbe essere avvicinato di molto. È dal suo inflessibile perseguimento ad opera delle imprese, all’insegna dell’imperativo «primo non assumere», che nascono i lavori di breve durata. I quali presentano pure il vantaggio, per l’impresa, di non doversi imbarcare nei defatiganti procedimenti connessi ai licenziamenti individuali e collettivi. Se pare utile, basta lasciar scadere i contratti di breve durata in essere.
Non da ultimo, l’occupazione instabile è vista con favore dalle imprese perché contribuisce alla frammentazione delle classi lavoratrici e delle loro forme associative. Quando sotto un medesimo tetto lavorano per anni centinaia o migliaia di persone, dipendenti dalla medesima azienda, sempre le stesse, è assai probabile che prima o poi si rendano conto di avere interessi comuni; si aprano a forme di mutuo rapporto e solidarietà; scoprano che se ci si associa si possono ottenere dall’impresa paghe e condizioni di lavoro migliori. Da situazioni simili nacquero in Europa i sindacati dei lavoratori, secoli fa, e continuano a nascere nei paesi emergenti. Mentre se le persone al lavoro sotto lo stesso tetto, pur ugualmente numerose, mutano continuamente, poiché la maggior parte di esse sono part timers, o temporanei, o interinali, o «consulenti» a giornata, e per di più dipendono da dieci aziende diverse grazie alle catene di sub-sub-appalti in cui si compendia la creazione di valore, la possibilità che si organizzino o aderiscano stabilmente a un sindacato si fa assai minore.
La diffusione dei lavori flessibili ha introdotto nel mercato del lavoro il principio del «numero chiuso». Nella nuova economia il lavoro decente, con ciò intendendosi il lavoro stabile, ben retribuito, con buone prospettive di carriera e di gratificazione personale, non è destinato a scomparire. È piuttosto destinato a diventare il privilegio d’un numero limitato di eletti – intorno a un quarto, in media, di coloro che lavorano per ciascuna impresa. Attorno a loro ruoteranno sempre più vorticosamente circa tre quarti di lavoratori temporanei, nomadi, precari, gitani, di passaggio, in affitto. Vi sono grandi imprese che non soltanto praticano da tempo tale politica delle «risorse umane» per motivi di razionalità economica – un caso preclaro è la Microsoft in Usa – ma pure la teorizzano come il solo modo per assicurare la stabilità occupazionale e il livello di reddito del nucleo di «interni», formatosi con gli anni tramite una severa selezione. Lo scenario sociale che per tal via si delinea è quello d’un mercato del lavoro nazionale e internazionale dove i lavori decenti – espressione dell’Organizzazione internazionale del lavoro – saranno a numero chiuso, come gli accessi alle facoltà di Medicina o i concorsi per dirigenti statali. Lo stesso scenario rende alquanto implausibile l’affermazione, sovente addotta a giustificazione delle occupazioni precarie, per cui questi sarebbero un passaggio temporaneo che sbocca per la maggior parte degli interessati in un lavoro a tempo indeterminato. Non si vede infatti in qual modo sarà possibile far entrare in un mercato del lavoro che è largo un quarto delle forze di lavoro grandi tre volte volte tanto.
Il fatto che il lavoro flessibile sia, alla nostra epoca, un’invenzione dell’impresa privata non deve condurre a sottacere il ruolo passato e presente di quell’eccezionale produttore di flessibilità e precarietà dell’occupazione che è rappresentato dalla Pubblica amministrazione. Nel solo settore dell’istruzione i docenti universitari con un contratto a termine di un anno erano migliaia già mezzo secolo fa, e tali restano, seppure con un cambio di denominazione: ieri erano prof. “incaricati”, oggi prof. “con affidamento” o a contratto. E centinaia di migliaia erano allora e sono oggi gli insegnanti precari della scuola dell’obbligo e delle superiori.
La novità che si registra all’epoca della globalizzazione è l’importazione nella PA dei lavori atipici analoghi a quelli utilizzati dalle imprese. Pressati dalle ristrettezze di bilancio che impediscono di aumentare i posti in organico o anche soltanto di riempirli, e al tempo stesso ormai diffusamente pervasi anch’essi dall’idea che il segreto dell’efficienza organizzativa vada individuato primariamente nella deregolazione del mercato del lavoro, tutti i settori della PA utilizzano a centinaia di migliaia, in complesso, le collaborazioni coordinate e continuative (che il decreto attuativo della legge 30 non ha in essa toccato), un istituto che esiste da mezzo secolo ma che essa ha largamente adottato a partire dalla metà degli anni 90; i contratti a termine; il tempo parziale; il lavoro in somministrazione. Lo esige la globalizzazione, sostengono i politici nazionali come i dirigenti degli enti territoriali, all’unisono con imprenditori e dirigenti privati.

Contro la precarietà, una politica del lavoro globale e nazionale
Non v’è dubbio che tentar di affrontare le cause della precarietà del lavoro per ridare speranze ai giovani è un compito tale da apparire sulle prime al di fuori della portata di qualsivoglia azione politica. Se la insicurezza dell’occupazione deriva in ultimo da un immane processo economico globale che non esclude nessun paese, vien naturale chiedersi come possa un singolo governo o stato cercare di contrastarla intervenendo sulle sue cause. Di certo siamo dinanzi a un impegno di lungo periodo, nulla meno di un compito storico che non si può affrontare redigendo diligentemente un elenco più o meno lungo di provvedimenti contro la precarietà del lavoro, da introdurre e spuntare poi di volta in volta nel corso del quinquennio che intercorre tra un’elezione e l’altra.
Nonostante ciò, se uno prova ad approfondire un poco i termini della questione, essa non sembra così intrattabile come si suole presentarla. Al fine di accostarvisi con efficacia è opportuna scomporre la questione in due piani, quello internazionale e quello interno. Cominciamo dal primo. Ho ricordato all’inzio che le cause della insistita domanda di lavoro flessibile da parte delle imprese dei paesi più sviluppati sono soprattutto da ricercare nella permanente ristrutturazione su scala globale del processo produttivo che esse perseguono dagli anni 80 del Novecento con l’obbiettivo di andare a produrre qualsiasi genere di bene e di servizio in quei paesi dove il costo del lavoro è minimo, e insieme sono minimi o inesistenti i diritti reali di cui godono i lavoratori.
Ne consegue che ai nostri giorni le condizioni di vita e di lavoro conquistate da quello che fu il proletariato europeo e americano sono sfidate dal proletariato globale, che da esse si vede e si sente lontanissimo. Nella situazione che si è così determinata, il lavoro su domanda e giusto in tempo è soltanto una componente della pressione che sui redditi e sui diritti della parte alta della scala viene esercitata dalle imprese globali, utilizzando quale strumento i redditi e i diritti della parte bassa delle forze di lavoro mondiali. Essa funge altresì da mezzo di comunicazione: è un modo per far sapere a coloro che stanno meglio che nel caso non acconsentano a ricevere salari calanti e a fruire di minori diritti, il lavoro andrà sempre più a chi sta peggio. Di fronte ad essa i sindacati hanno pochi strumenti per opporsi, poiché su un mercato del lavoro diventato mondiale il loro potere di contrattazione è sempre più limitato dall’eccesso di offerta di forza lavoro a basso costo. E’ questa la vera sfida della globalizzazione, non il fatto che a Belluno o ad Ancona si possano comprare merci made in Cina a prezzi stracciati. Dall’esito della sfida dipenderà se il pareggiamento, a periodo lungo inevitabile, tra i redditi e i diritti delle forze di lavoro comparativamente più agiate e quelle delle forze più povere del mondo avverrà verso l’alto della scala, o non piuttosto verso il basso.
Da vent’anni e oltre la maggior parte delle 100.000 corporations transnazionali (Tnc) che di fatto governano l’economia mondiale, per lo più americane ed europee, a cui fa capo circa un milione di sussidiarie, si adoperano efficacemente affinchè il suddetto incontro avvenga nel punto più basso possibile della scala.
Per comprendere in quali modi operano la maggior parte delle Tnc nei PVS, ma anche numerose Pmi, giova riferirsi, per vari aspetti, al caso della Cina. E’ vero che la nuova forza lavoro globale d’un miliardo e mezzo di individui non risiede soltanto in Cina: sta anche in India e in Russia, nonché in Indonesia, Filippine, Malesia, Thailandia, Vietnam e altri paesi. Ma poco meno della metà di essa lavora in Cina. Le condizioni di lavoro prevalenti da decenni in Cina sono al presente in via di miglioramento, ma ci vorranno altri decenni per superarne le caratteristiche: salari che non arrivano a un dollaro l’ora (una legge del 2008 fissa il salario minimo a 75 centesimi di dollaro l’ora); familiari dei lavoratori che sopravvivono con meno di un dollaro al giorno; rifiuto da parte delle imprese di riconoscere diritti fondamentali e standard minimi; orari dell’ordine di 60 ore la settimana e oltre; estrema flessibilità di prestazione; assenza di rappresentanze sindacali e divieto di costituirle; vietato lo sciopero; carenti, a dir poco, le protezioni per la salute e la sicurezza sui luoghi di lavoro; assenza in molte imprese di contratti di lavoro legali; larga prevalenza, dove mai sussistono, di contratti a termine per tre anni o meno.
Sono tuttavia le Tnc americane ed europee localizzate in Cina, con centinaia di migliaia di sussidiarie, milioni di dipendenti diretti, e altre decine di milioni di operaie ed operai occupati - da fornitori e sub-fornitori strettamente controllati in diversi modi dalle prime, il motore che propelle vorticosamente tale processo. Già anni addietro si stimava che le importazioni in Usa e Ue dalla Cina erano imputabili per il 65% a detti gruppi economici. In altre parole “l’enorme ondata di esportazioni di cui è accusata la Cina è primariamente un’ondata di esportazioni attivata da corporations globali che utilizzano lavoratori cinesi.” Questo fiume di export che per gli Usa e i paesi Ue diventano import esercita una enorme pressione sui salari, sulle condizioni di lavoro e sul livello di vita di ogni paese del mondo.
E’ risaputo che le Tnc in questione hanno localizzato i loro impianti in Cina per una pluralità di buoni motivi, dal prezzo dei terreni ai riguardi che ha laggiù il fisco per le imprese straniere. Ma nell’ordine di priorità dei motivi stessi si collocano decisamente in alto i bassi salari e la facilità con cui è possibile, in quel paese, assumere e licenziare; prolungare arbitrariamente i periodi di prova per anni; imporre in via ordinaria ai dipendenti decine di ore settimanali di straordinario; non pagare alcuna indennità di licenziamento, e farsi invece rimborsare dal dipendente che al caso si dimette nientemeno che le spese sostenute per la sua formazione. Questo nesso tra la localizzazione in Cina e la possibilità di avvalersi di lavoratori e lavoratrici altamente e docilmente flessibili è emerso con particolare evidenza alcuni anni addietro.
Tra il 2006 e il 2007 il governo cinese ha infatti diffuso un disegno di legge sui contratti di lavoro che introduceva per essi nuovi requisiti. Di fatto questi erano esigui, ben al disotto di quelli fino a tempi recenti dati per scontati in America e in Europa; tuttavia per milioni di lavoratori essi avrebbero rappresentato un progresso. I principali articoli del disegno di legge prevedevano: un nuovo salario minimo (che avrebbe dovuto salire, come ho ricordato sopra, nientemeno che a 0,75 dollari l’ora, in luogo dello 0,65 pagato, tra gli altri, da Wal-Mart e MacDonald); i contratti di lavoro erano posti sotto la tutela delle pubbliche autorità; erano introdotte l’indennità di licenziamento e la possibilità di negoziare le condizioni di lavoro in fabbrica. La probabilità che tali requisiti fossero poi realmente applicati nelle imprese non era molto elevata: è noto che la Cina dispone sulla carta di leggi avanzatissime e però mai lontanamente fatte eseguire, compresa una sulla regolamentazione delle attività sindacali.
Ad ogni buon conto molte transnazionali americane ed europee, che si consideravano minacciate da tali rivoluzionari provvedimenti, iniziarono una intensa campagna di lobbying al fine di costringere il governo cinese ad annacquare o abbandonare del tutto la bozza di legge. Minacciando addirittura di delocalizzare all’estero, in paesi ancora più attraenti, le loro produzioni. Le pressioni e le minacce, più o meno velate, formulate dalle Tnc insieme con le loro associazioni rappresentative hanno avuto successo. La legge approvata dal Congresso Nazionale del Popolo cinese è entrata in vigore dal 1° gennaio 2008, è assai più morbida della prima bozza governativa, e minori sono le probabilità che venga realmente applicata.
Tra i primi a indignarsi per il comportamento delle corporations Usa in relazione alla nuova legge cinese sul lavoro sono stati buon numero di parlamentari americani. In una Congressional Letter inviata al Presidente Bush il 31 ottobre 2006 un folto gruppo di essi scriveva:
Noi siamo rimasti sgomenti nel leggere sulla prima pagina del ‘New York Times’ del 13 ottobre un dettagliato articolo relativo agli sforzi di società transnazionali statunitensi volti a minare il rispetto di fondamentali diritti dei lavoratori, riconosciuti sul piano internazionale; sforzi concretatisi con il cercar di indebolire i provvedimenti contenuti nella nuova legge cinese sul lavoro. …

A giudicare da quanto poi accaduto, l’indignazione dei parlamentari americani nei confronti delle loro corporations ha conseguito solo in parte l’esito che si prefiggeva. Tuttavia il caso della Cina, su cui valeva la pena di soffermarsi perché è rappresentativo d’una situazione planetaria, fornisce la base a due argomenti che una volta enunciati appaiono difficilmente aggirabili. Il primo dice che le politiche del lavoro sono alla nostra epoca, o dovrebbero essere, il problema prioritario della politica mondiale. Da ciò discende che esso andrebbe collocato in una posizione analoga sull’agenda dei partiti e del governo di ogni paese. La politica mondiale del lavoro, e le rispettive politiche nazionali, dovrebbero perseguire un unico obbiettivo: far salire le retribuzioni – tenendo conto dei differenziali di produttività - e i diritti del miliardo e mezzo dei lavoratori globali verso l’alto della scala, fino a che raggiungano un livello di sostanziale parità con le retribuzioni e i diritti di cui godono i lavoratori dei paesi più sviluppati. La domanda ossessiva di occupazione variabile da parte delle imprese nasce dall’enorme squilibrio che esiste tra i primi e i secondi. Il solo modo per ridurla in modo strutturale consiste nel diminuire tale squilibrio.
Per risultare efficace nei confronti degli attori economici una politica del lavoro globale dovrebbe impiegare una varietà di strumenti, coordinati in modo da potenziarsi a vicenda. Il secondo argomento cui fa pensare il caso cinese, il quale come s’è visto non tanto è cinese quanto una questione di rapporti tra gruppi economici aventi sede e/o operanti in Cina, Stati Uniti e Unione Europea, è che tale politica non è affatto priva di strumenti come potrebbe sembrare. Tra di essi, a titolo indicativo, sarebbero utilizzabili sin da ora almeno i seguenti:
L’accertamento e il perseguimento legale delle responsabilità degli stati dove le Tnc hanno sede giuridica, e parimenti degli stati ospitanti in cui esse operano mediante qualsiasi tipo di sussidiaria, nel commettere violazioni dei diritti umani in generale e dei diritti dei lavoratori in particolare.
L’accertamento e il perseguimento civile e penale, di fronte alla legislazione nazionale e internazionale, delle responsabilità delle Tnc, inclusi le loro sussidiarie, gli appaltanti e sub-appaltanti, e i fornitori, di violazioni intervenute nel medesimo ambito di cui sopra.
Lo sviluppo di codici di responsabilità sociale delle imprese che includano espressamente l’impegno ad assicurare ai loro dipendenti diretti e indiretti, impiegati nei paesi in via di sviluppo, condizioni di lavoro, diritti sindacali effettivi, e salari, analoghi a quelli di cui godono i loro dipendenti nel paese dove esse hanno sede giuridica.
Accordi globali tra associazioni o confederazioni internazionali di sindacati dei lavoratori, quali la International Trade Union Confederation, e singole Tnc o gruppi di Tnc, intesi a stabilire standard minimi di salario e condizioni di lavoro, e pieni diritti sindacali, nelle unità produttive operanti in paesi in via di sviluppo sotto il controllo di dette Tnc.
Sviluppo delle attività di indagine e delle strategie finanziarie degli enti che intendono praticare forme di investimento socialmente responsabile, al fine di renderle più efficaci, nel selezionare preferenzialmente le imprese che ovunque nel mondo assicurano ai lavoratori da esse dipendenti in via diretta o indiretta,, le migliori condizioni di lavoro, di retribuzione, di diritti sindacali effettivi.
Un impiego organico dei suddetti strumenti, ove fosse concertato dai governi Ue e fatto proprio dal Parlamento Europeo, potrebbe costituire il programma di una politica del lavoro globale, volta a risolvere gradualmente il conflitto intorno alle condizioni di lavoro determinatosi tra i lavoratori dei paesi sviluppati e quelli dei paesi in via di sviluppo. Il miglioramento delle condizioni di lavoro, dei salari e dei diritti nei paesi emergenti ridurrebbe di per sé la compressione in atto dei medesimi nel nostro paese come nel resto della Ue.
Per quanto riguarda l’Italia, un passo sostanziale per contrastare sul serio la diffusione dell’occupazione di breve durata che sbocca nella precarietà non potrebbe essere, nel quadro di una politica del lavoro globale, che una nuova legge complessiva sul lavoro. Qualcosa che sarebbe assai diverso dal ddl di riforma presentato a inizio 2012 dal ministro del Lavoro. Varie idee in tal senso sono state avanzate negli ultimi anni da giuristi democratici; invano, ovviamente, se si guarda alla legge di riforma presentata dalla ministra Fornero. La elaborazione del testo legislativo in questione, cui spetterebbe l’oneroso compito di rivedere l’intera materia, dovrebbe muovere dall’assunto che le immagini della persona e della società soggiacenti in generale a una legge hanno importanza almeno pari, se non anzi superiore, ai suoi dispositivi attuativi. La nostra carta suprema, la Costituzione del 1948, è una nobile legge perché ad essa soggiace un’immagine di persona il cui maggiore scopo è il suo pieno sviluppo umano, congiunta all’immagine d’una società impegnata a rimuovere gli ostacoli al conseguimento, da parte di ciascuno, dello scopo medesimo (art. 3). Appunto queste sono le immagini cui dovrebbe ispirarsi la nuova legge.
Quest’ultima dovrebbe quindi richiamarsi sin dall’inizio agli articoli della Costituzione che collegano i diritti del lavoratore alla qualità della vita e della convivenza in una società democratica. Gran parte della legislazione italiana sul lavoro degli ultimi decenni li ha in buona sostanza ignorati, se non formalmente violati. Si vedano l’art. 36, che dice: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge”; l’art. 41: “L’iniziativa economica privata… non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”; l’art. 46: “Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”).
La sola proliferazione dei contratti atipici, che superano come noto la quarantina, appare in contrasto con ciascuno dei predetti articoli; né la riforma del lavoro in discusssione in Parlamento pare orientata a ridurne il numero. La riduzione del reddito conseguente all’alternanza di periodi di occupazione e disoccupazione nel corso dell’anno, esperienza che accomuna milioni di precari, contrasta con il primo comma dell’art. 36, così come la normativa della CE la quale non stabilisce, ma lascia intendere che la giornata lavorativa possa essere allungata sino a 13 ore. Il sistematico venir meno delle sicurezze dell’occupazione, del reddito, della previdenza e delle altre elencate a più riprese dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (si veda il suo rapporto a favore di Un travail decent) è in palese conflitto con l’art. 41. La collaborazione dei lavoratori alla gestione delle aziende, definita un diritto dall’art. 46, è resa impossibile nelle aziende, in forme pur minime, dalla frammentazione, esternalizzazione e terzizzazione dei processi produttivi richiamate all’inizio, nonché dalla concomitante moltiplicazione delle tipologie di contratto e di categoria d’appartenenza che si ritrova in ogni unità produttiva. Infine va ricordato che l’art. 39, sulla libertà ed i diritti sindacali, è rimasto fino ad oggi inattuato nella parte fondamentale riguardante la stipulazione di contratti collettivi di lavoro in capo ai sindacati in quanto soggetti legalmente registrati. Per dare un futuro al lavoro e nuove speranze ai giovani, parrebbe quindi necessario ripartire dalla Costituzione.
Le implicazioni d’una legge sul lavoro la quale, muovendo dalla Costituzione, mirasse in modo dichiarato a recuperare l’assunto che il lavoro non è una merce come le altre, ma in ogni momento e in ogni situazione coinvolge inseparabilmente lo stesso essere della persona che lo presta, avrebbe conseguenze pratiche di grande rilievo. La stessa nozione di “mercato del lavoro” andrebbe riveduta. Se il lavoro non è una merce, i diritti del lavoro, a partire dal diritto a un’occupazione ragionevolmente stabile, non possono venire ridotti o negati scambiandoli con miglioramenti del sostegno ai disoccupati, in conformità a quanto postula la nozione di flessicurezza. Tantomeno è lecito che un soggetto terzo ne possa disporre per affittarlo a un utilizzatore. O che un imprenditore possa legalmente operare senza avere nemmeno un dipendente, come la legge 30/2003 ha reso possibile, una possibilità che la nuova legge non rimuove. O che che centinaia di migliaia di lavoratori si trovino nello stesso periodo e per lungo tempo in cassa integrazione, come oggi accade.
Un altro cardine della legge dovrebbe consistere nel ristabilire il principio per cui il contratto di lavoro dipendente o subordinato è il tipo di contratto predominante, non una delle tante possibilità di regolare una prestazione lavorativa, come al fondo lasciava intendere la riforma del 2003. In effetti il nuovo ddl di riforma che il Parlamento si accinge a varare (primavera 2012) enuncia il principio, ma lì si ferma: che il suo complicato impianto possa promuovere la diffusione del contratto a tempo pieno e durata indeterminata è un mero auspicio. Mentre il contratto normale dovrebbe essere sempre a tempo indeterminato e a orario pieno, tutti gli altri eventuali tipi di contratto andrebbero considerati come delle deroghe dal contratto base, da ammettere solamente a fronte di specifiche esigenze delle imprese o del lavoratore. Se si guardano alle esigenze effettive delle organizzazioni, da un lato, e delle persone e delle famiglie dall’altro, i tipi di contratto in deroga da prevedere per legge non avrebbero bisogno d’essere più di cinque o sei, in luogo della pittoresca platea di decine di contratti cui ha dato origine con gli anni la fantasia del legislatore. Superfluo rilevare quanto siamo lontani da tutto ciò, con il ddl in discussione.

Ognuno comprende che una politica di portata internazionale quale sarebbe quella prospettata sopra alla fine sarebbe realizzabile, ovvero si potrebbe tradurre in concreti atti legislativi, soltanto se ha un sostegno adeguato da parte dei governi dei principali paesi e delle organizzazioni internazionali. Il suo corrispettivo nazionale richiederebbe anche il consenso maggioritario dei partiti e degli elettori. E’ superfluo notare che al presente non sussistono né il primo, nell’Unione Europea, né il secondo, nel nostro paese. Le politiche del lavoro della Ue sono dirette dalla Commissione Europea, un organismo non eletto, soggetto alle pressioni dei gruppi economici massicciamente presenti a Bruxelles, sì che le sue vedute in materia sono affatto simili a quelle dell’Ocse o del Fondo Monetario Internazionale, fautori arcigni della de-regolazione del mercato del lavoro. In Italia, perfino tra le forze politiche del centro-sinistra prevale una concezione meramente adattativa delle politiche del lavoro, che si distingue da quella del centro-destra solo perché orientata ad una certa maggior disponibilità quando si tratta di curare gli effetti della precarietà mediante “ammortizzatori sociali”. Alla luce di tale concezione, la globalizzazione esiste. Dunque bisogna adattarvi le politiche del lavoro – quasi che la globalizzazione non fosse essa stessa, primariamente, un insieme di politiche del lavoro. La flessibilità del lavoro, ossia la neutralizzazione dei dispositivi legislativi che proteggono i lavoratori dipendenti dal licenziamento senza giustificato motivo, o se si preferisce che ne rendono oneroso il costo economico per le imprese, è necessaria. Il problema starebbe tutto nel renderla sostenibile.
Una volta riconosciute codeste condizioni all’intorno, occorre pure ammettere che una politica del lavoro globale potrà affermarsi solamente quando diverranno maggioranza le persone consapevoli che la richiesta di utilizzare la forza di lavoro solo quando serve, e fintanto che serve, non è uno strumento isolato del conflitto sociale. E’ piuttosto uno dei più insidiosi tra i tanti inclusi nell’armamentario dell’attacco politico che all’ombra di ragioni tecniche non sempre ben fondate – che sono manco a dirlo il loro costo, a fronte del deficit del bilancio pubblico - viene da tempo condotto allo stato sociale, nelle sue varie componenti: sanità, scuola, pensioni, oltre al lavoro. Con un successo ormai evidente, soprattutto nel caso delle ultime due.
Dopodichè si tratterebbe di vedere se e quando, sostenuta da tale consapevolezza, la suddetta maggioranza, che non si può del tutto escludere esista già, sebbene non lo sappia, arriverà a mobilitarsi per difendere il lavoro quale elemento primario dello stato sociale, e con esso i diritti dei lavoratori, trasformando tale esigenza in una sostenuta domanda politica.
Torino, 19 giugno 2012

Luciano Gallino