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La questione carceraria oggi - Leonardo Arnau
Redazione 29 aprile 2011 15:29
Leonardo Arnau fa il punto sull'attuale insostenibile situazione delle carceri. Il sovraffollamento crea condizioni drammatiche per i detenuti e nega la finalità rieducativa della pena. Solo una riforma del diritto penale può eliminare la vera causa di questa odierna crisi di sistema.

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LA QUESTIONE CARCERARIA OGGI IN ITALIA

L’analisi delle condizioni di vita nelle carceri italiane e del rapporto intercorrente tra custodia cautelare e pena rappresenta la cartina di tornasole di un sistema penale sempre più inosservante il principio di uguaglianza e quello della funzione rieducativa della pena, che appare, negli ultimi anni, sempre più connotarsi per essere inutilmente afflittiva. È ormai noto che l’attuale condizione degli istituti di pena nazionali contraddice radicalmente l’intento delineato dalla Costituzione. Si è, infatti, in presenza di un sistema che ha decisamente spostato l’asse dalla prevenzione alla penalizzazione, tanto è che, da più parti, si parla di funzione pancarceraria della pena.
Tale fenomeno, comunemente definito passaggio dallo Stato sociale allo Stato penale, ha comportato una modifica profonda della Costituzione materiale, aprendo così la strada ad uno stravolgimento in senso autoritario ed essenzialmente repressivo dell’intero quadro giuridico nazionale. Il carcere si configura sempre di più come contenitore del conflitto, come discarica sociale e strumento atto a confinare donne e uomini delle classi sociali meno abbienti, in quanto tali, ritenute pericolose. Circa l’80 per cento della popolazione carceraria è, infatti, costituita dalla cosiddetta detenzione sociale, ovvero da persone che vivono uno stato di svantaggio, disagio o marginalità (immigrati, tossicodipendenti, emarginati) per le quali, più che una risposta penale o carceraria, sarebbero opportune politiche di prevenzione e sociali appropriate.

Le strutture penitenziarie del nostro Paese raccolgono oggi una popolazione di quasi 68.000 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 44.608 posti.
L’Italia si colloca, così, al secondo posto in Europa per un tasso di sovraffollamento (152%) che non conosce precedenti nella storia della Repubblica.
In alcune regioni il numero delle persone recluse è addirittura il doppio di quello consentito: in Emilia Romagna il tasso di affollamento è del 193 per cento, mentre in Lombardia, Sicilia, Veneto e Friuli si attesta intorno al 170 per cento.
Con un ritmo di crescita di quasi 1.000 ingressi al mese (per l’esattezza gli ingressi mensili si attestano mediamente in circa 800), la situazione delle nostre prigioni peggiora di giorno in giorno.
Si tratta di una cifra record che non è stata mai registrata dai tempi dell'amnistia di Togliatti del 1946 e, sulla scorta dei tassi di incarcerazione ora riportati, si prevede che a fine 2012 la popolazione carceraria ristretta nei 206 istituti italiani potrebbe siorare 100.000 presenze. Infatti, soltanto 25 tra case di reclusione, case circondariali e istituti per le misure di sicurezza ospitano un numero di detenuti pari o inferiore alla capienza regolamentare.
La situazione è palesemente drammatica, tanto che l’Italia è stata recentemente condannata – per assoggettamento di un detenuto a trattamenti inumani e degradanti – con la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 16 luglio 2009 (ricorso n.22635/03, Sulejmanovic c. Italia).
Sono bastati quattro anni dall’ultimo provvedimento di indulto per riportare gli istituti carcerari a vivere gli stessi problemi di allora. Di più, dai 31.000 detenuti del 1991, si è passati ai 53.000 detenuti del 2000, presto innalzatisi a 61.000 detenuti al momento dell’indulto del 2006. Dopo tale provvedimento, i detenuti presenti nelle carceri erano 39.000: in poco meno di quattro anni la cifra di detenuti presenti è quasi raddoppiata.

Le cause principali di tale situazione discendono, in sintesi, da due fattori che si snodano lungo due differenti direttrici.
Il primo è quello normativo, laddove alcune novelle legislative adottate in ambito penale hanno cominciato a dare frutti a pieno regime, in particolare, la c.d. Bossi–Fini, in materia di immigrazione (particolarmente dopo le modifiche introdotte dalla L. n. 94/2009), la Fini–Giovanardi (L. n. 49/2006) in materia di contrasto al traffico di stupefacenti e la c.d. ex Cirielli (L. n. 251/2005) che inasprisce sensibilmente le sanzioni penali e rende più difficile l’accesso ai benefici penitenziari per i recidivi, che costituiscono la grande maggioranza dei detenuti nelle carceri, detenzioni, queste ultime, molto spesso legate alla piccola e piccolissima criminalità, di cui la recidiva è fattore caratterizzante.
Il secondo fattore è quello culturale, che vede competere alcune forze politiche nel chi grida più forte alla sicurezza pubblica ed alla tolleranza zero. Si è, in definitiva, smarrito il senso del risolvere i problemi dei cittadini con strumenti diversi da quello carcerario. Se questo è il messaggio che viene dalla politica è evidente la ricaduta che ciò può avere sull’operato delle forze di polizia e della magistratura. Con ciò si spiega anche il dato relativo al numero di soggetti sottoposti alla misura cautelare massima.
D’altronde è evidente che il tema della sicurezza rappresenta un leit motive utilizzato da una parte della politica nazionale e locale quotidianamente ed ossessivamente, attraverso la costruzione dell’ideologia della paura dell’altro e del diverso, che si traduce in scelte politiche che, ispirate da pure ragioni demagogiche e di consenso, prendono a pretesto un supposto bisogno di sicurezza dei cittadini, artificialmente creato ed amplificato dagli organi di stampa, per introdurre nel nostro ordinamento norme palesemente antidemocratiche – così determinandone un arretramento intollerabile del livello di civiltà – rivelatrici di un atteggiamento discriminatorio, selettivamente orientato a colpire soprattutto i migranti e le persone che versano in situazioni sociali ed economiche disagiate.
Da molti anni, negli Usa e in Europa (da ultimo in Italia), per sicurezza si intende solo la diminuzione del rischio, per i cittadini, derivante dalla diffusione della microcriminalità. Ma questo non è l’unico modo di declinare la sicurezza, che un tempo non lontano significava piuttosto messa al riparo dai rischi della vita. La sicurezza viene fatta coincidere, nel dibattito italiano attuale, con legalità E’ vero, c’è un diffuso senso di insicurezza. Indipendente, però (dicono le ricerche), dall’aumentare o diminuire dei tassi di microcriminalità. Sensibile, invece, alle campagne di legge e ordine: le quali spostano semplicemente questo senso di insicurezza su un bersaglio visibile e (apparentemente) aggredibile, laddove sarebbe molto più difficile fare i conti, e seriamente, con la crisi economica, la precarietà del lavoro, la flessibilità, il declino delle protezioni collettive, l’incertezza del futuro, i problemi ambientali, per non parlare degli infortuni sul lavoro.
In questo contesto, si segnala negativamente l’abbandono definitivo dei principali progetti di riforma del codice penale (progetto Commissione Pagliaro; progetto Commissione Grosso; progetto Commissione Nordio e, in ultimo, il progetto della Commissione Pisapia), che ha condotto ad inseguire rimaneggiamenti legislativi settoriali tutti orientati all’inasprimento delle pene ed alla creazione di nuove fattispecie di reato, così mandando in soffitta ogni tendenza, da un trentennio, in più occasioni, caldeggiata da magistratura ed avvocatura, volta alla creazione di un diritto penale «minimo», volto ad individuare proposte tese alla decarcerizzazione, alla introduzione di sanzioni sostitutive, alla elaborazione di progetti di mediazione penale, alla instaurazione di prassi avanzate all’interno delle carceri.
Gli istituti di pena nazionali sono così pervenuti ad una situazione non più sostenibile. Tale condizione rappresenta il frutto di un ventennio di politiche settoriali di sicurezza, accomunate dal tratto comune costituito dalla introduzione di nuove fattispecie di reato, finalizzate ad assecondare supposte emergenze, dall’immissione nel sistema di ipotesi di custodia cautelare obbligatoria, dall’innalzamento delle pene per reati anche di non particolare allarme sociale o , peggio, legati ad una mera condizione di irregolarità sul territorio nazionale (quanto ai migranti) operata all’esclusivo e non celato intento di consentire l’applicazione della custodia cautelare in carcere.
Ciò è il portato dell’irrazionale inasprimento del sistema penitenziario scelto dal legislatore per l’esecuzione delle pene nei confronti degli stranieri condannati (poi dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 249/2010) e per l’esecuzione penale nei confronti dei recidivi.
Si tratta del fallimentare risultato di politiche legislative che sottolineano ed esasperano diseguaglianze, delineando quello che i Giuristi democratici hanno già definito il “diritto penale dell’amico e del nemico”.
La popolazione carceraria è - in larghissima misura - costituita da persone in condizioni sociali disagiate: stranieri (la maggior parte dei quali in custodia cautelare), tossicodipendenti, alcol-dipendenti, persone con ridotto grado di scolarità, disoccupati. Molti dei ristretti - non solo negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari - hanno problematiche di natura psichiatrica che richiederebbero assistenza. Questo è il frutto di scelte amministrative che - da anni - riducono gli organici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, mentre progetti di reinserimento sociale vengono sviluppati per lo più grazie a volontari o dall’associazionismo penitenziario.
Queste scelte legislative finiscono per pervenire all’accettazione esplicita e programmata della prospettiva di un numero indeterminato e progressivamente crescente di detenuti. Quasi a voler significare che per ogni tipo di devianza e marginalità, comunque determinata, la risposta è una sola: il carcere e l’esclusione. Si tratta di politiche indifferenti alle ragioni del disagio sociale e alle cause dei fenomeni collettivi complessi, quali ad esempio l’immigrazione e le tossicodipendenze, che hanno ha operato una scelta: quella dell’emarginazione forzata dei soggetti che ne sono il prodotto.

A fronte dell’attuale sovraffollamento carcerario i Giuristi democratici intendono opporsi con forza all’idea che l’orientamento del nuovo piano carceri – unica soluzione ipotizzata dal Governo – sia lo strumento più idoneo a risolverlo. L’ampliamento dell’edilizia carceraria (a condizione che si reperiscano fondi sufficienti per realizzarla) si configura, in verità, come un fallimento annunciato, sulla base dell’esperienza dell’incarcerazione di massa negli Stati Uniti. Le carceri non sono mai abbastanza: più prigioni si costruiscono, più se ne riempiono. Del pari, è risultata fallimentare l’esperienza applicativa della L. n. 199 del 2010 (c.d. svuota carceri) che ha condotto alla concessione della detenzione domiciliare ad un numero di poco superiore ai mille detenuti (a fronte della platea dei 9000 inizialmente ipotizzata dal Ministro Alfano).
Contro la costruzione di nuove prigioni come soluzione a tutti i problemi, i Giuristi democratici intendono mantenere l’orizzonte di una riforma sostanziale del codice penale che promuova una drastica riduzione dei reati e delle pene e la riconduzione del carcere ad extrema ratio attraverso la tutela del principio della riserva di codice, la concessione più equilibrata e diffusa del beneficio della pena sospesa. La previsione di misure extrapenali e la riduzione dei minimi e dei massimi edittali possono rappresentare soluzioni ben migliori se affiancate alla disponibilità a rivedere normative altamente criminogene.
Una politica criminale lungimirante dovrebbe guardare alle cause del sovraffollamento ed intervenire sulle disposizioni che creano un incremento dei detenuti, senza, peraltro, far accrescere la sicurezza pubblica. La riforma del codice penale rappresenta, in questo quadro, la strada maestra per eliminare la centralità della pena detentiva, per introdurre pene alternative e sostitutive alla detenzione e valorizzare l’utilizzo delle misure alternative, argine efficace al ritorno in carcere.
E’, in definitiva, indispensabile cambiare approccio, abrogare le leggi che hanno, di fatto, creato criminalizzazione e carcerazione crescenti, per delineare il ritorno ad una nuova stagione del «diritto penale minimo», capace di comprendere e incidere sulle effettive ragioni sociali della devianza e del crimine.
Padova, 15 aprile 2011
Leonardo Arnau