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Le ragioni del NO all'astensione - settembre 2002
Redazione 16 settembre 2005 17:40
Comunicato sulle giornate di astensione indette dall'Unione delle Camere Penali per il 16,17 e 18 settembre 2002

L'Unione delle Camere Penali Italiane, organismo rappresentativo di molti avvocati penalisti, ha proclamato per il 16, 17 e 18 settembre l'astensione dalle udienze e ha deciso che una giornata di ogni mese sarà dedicata ad iniziative per ottenere la separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici. Ancora una volta migliaia di processi penali sono stati rinviati, ad eccezione di quelli con imputati detenuti che non abbiano espressamente dichiarato di condividere la scelta dei loro difensori.
Questo avviene in un contesto già drammatico per lo stato della giustizia in questo paese, dove l'attività giudiziaria è ormai al collasso, per molteplici ragioni, e la domanda di giustizia dei cittadini è del tutto inevasa. In campo penale gli unici processi che si celebrano sono quelli relativi alla marginalità sociale: scippi, reati connessi agli stupefacenti, piccolo spaccio, per lo più posti in essere da tossicodipendenti e da extracomunitari, spesso condannati dopo la celebrazione di processi veloci e poco garantiti.
L'Unione Camere Penali da tempo si batte in modo ossessivo perché i pubblici ministeri abbiano un ordinamento separato da quello dei giudici, una carriera autonoma (e non la stessa come oggi avviene) e diventino a tutti gli effetti una parte del processo, in posizione pressoché identica a quella dei difensori.
Solo in questo modo, si dice, può essere realizzato un giusto processo, che presuppone la parità tra accusa e difesa, pari poteri investigativi (salvo poi verificare quali imputati possono permetterselo), e un giudice terzo, cioè indipendente, imparziale, equidistante dal pubblico ministero e dal difensore.
Dall'altra parte, la preoccupazione, più volte espressa, è data dal rischio che la separazione della carriera del pubblico ministero da quella dei giudici possa privare il primo di autonomia ed indipendenza, ponendolo alle dipendenze del potere esecutivo. Ciò comporterebbe, per parlare del dato di maggior impatto politico, l'inevitabile superamento di quel principio di obbligatorietà dell'azione penale sancito dall'art.112 Cost., che è espressione del principio di uguaglianza e comporta il controllo di legittimità nei confronti di tutti i cittadini, senza altro condizionamento che la legge.
La preoccupazione è, in buona sostanza, che il potere esecutivo determini, con scelte politiche discrezionali ed ovviamente non predeterminate, quali reati si debbano perseguire o meno. È ben vero che il principio di obbligatorietà dell'azione penale sta già da tempo subendo un significativo ridimensionamento, e a prescindere dalla separazione delle carriere del pubblico ministero e del giudice. La legge sulle rogatorie, la proposta di riforma dell'ordinamento giudiziario nelle parti in cui è palese il tentativo di porre l'esecutivo in condizioni di essere sovraordinato alla magistratura, fino ad arrivare all'ultimo provvedimento in tema di ambiente che "interpreta autenticamente" la nozione di rifiuto in contrasto con le direttive europee e concede ancora più libertà di azione (e di inquinamento) alle imprese, sono i preoccupanti segnali di questa deriva. L'attuale legislatore, poi, sta intervenendo ripetutamente per agevolare, si passi il termine, il presidente del consiglio dei ministri (ma non solo), imputato in più processi per reati di una certa gravità. Il disegno di legge governativo di modifica dell'art. 45 c.p.p. in tema di rimessione dei procedimenti, e l'iter della sua approvazione, dimostrano in modo inequivocabile che non si discute di un principio generale, ma di come si possono e si devono paralizzare e vanificare alcuni processi penali, nei quali si assiste peraltro ad una sconcertante commistione di ruoli (avvocati che utilizzano il mandato parlamentare per favorire oggettivamente i propri assistiti). Del resto, la stessa coalizione di centro-destra ha già proposto che sia il Parlamento, anno per anno, a stabilire quali siano le priorità, cioè le condotte penalmente rilevanti da perseguire, creando in tal modo sacche di impunità (e non è difficile immaginare per chi) e compromettendo l'autonomia dell'ordine giudiziario, che subirà un vero e proprio diktat del potere politico. Di fronte all'attacco portato ad alcuni valori di rango costituzionale, in primis il principio di uguaglianza dei cittadini e l'indipendenza della magistratura,e in una situazione di complessiva disfunzione dell'amministrazione della giustizia, a cui nessun governo ha mai dedicato un disegno davvero complessivo di riforma, le Camere Penali continuano a ripetere che il tema decisivo è la separazione delle carriere, panacea di tutti i mali che affliggono la giustizia, dalla carenza di organici al sovraffollamento carcerario, alla lunghezza dei processi. E neppure sembra bastare la ragionevole proposta, avanzata anche in questa legislatura e che sembra avere l'appoggio anche del governo, di separare non le carriere, ma le funzioni. In poche parole la riforma imporrebbe a chi ha fatto il pubblico ministero di non fare il giudice se non trasferendosi in altro distretto di Corte di Appello e viceversa. Oggi chi lavora per la separazione delle carriere in ambito politico lo fa dichiaratamente solo per questo obiettivo. Ed è certo è che il silenzio della dirigenza delle Camere Penali su tutto quello sta succedendo appare inaccettabile e colpevole. A dispetto dei dati trasmessi in questi giorni, soprattutto al Centro-Nord (al Sud aumentano i fattori di condizionamento anche per gli avvocati) l'astensione dalle udienze non ha registrato la partecipazione di altre occasioni. Molti difensori hanno avvertito la strumentalità dell'iniziativa alle logiche di palazzo.
Per questo anche noi non ci siamo astenuti.


Il Coordinamento Nazionale Giuristi Democratici